Potete
prendere la fonte che preferite, il grafico di confronto della crescita della
produttività italiana rispetto ai principali paesi sviluppati non sarà troppo
diverso da questo a fianco.
Quando
si parla di crescita di un paese non si può dimenticare quale ne siano le fonti
fondamentali: l’aumento della popolazione e quello della produttività. Per un
paese come l’Italia, la cui modesta crescita di popolazione dipende soltanto
dall’immigrazione, è impossibile pensare di crescere senza una crescita della
produttività. Come ogni indicatore macroeconomico la produttività si presta a
numerose critiche ed è certamente frutto di convenzioni e approssimazioni;
tuttavia si può prendere la “Produttività Totale dei Fattori (lavoro e
capitale)” come fattore di riferimento, almeno in termini di crescita relativa
rispetto ad altri paesi.
A
partire dalla metà degli anni ’90 l’Italia sembra avere smarrito la via della
crescita di produttività, a partire dal 2003 ha addirittura iniziato un declino non
riscontrabile negli altri paesi.
Addentrandovi
nelle spiegazioni potrete trovare numerose motivazioni, in generale legate a
diverse variabili macro-economiche. Scartando le ipotesi (per la verità poco
diffuse e per nulla rigorose) che imputano la causa al costo del lavoro e
scartando la possibilità che tutto dipenda dalla scarsità di capitali, gli
indizi più rilevanti si concentrano in tre aree:
1. Investimenti
in settori che generano strutturalmente minore valore aggiunto
Non
si tratta tanto di confrontare i macro-settori “industria” e “terziario”,
quanto di individuare al loro interno i segmenti più dinamici e redditizi. E’
certamente vero che in Italia il peso relativo di segmenti manifatturieri
“tradizionali” (il tessile, le calzature) è più elevato che in altri paesi, ma
è in parte controbilanciato dalla presenza di numerose aziende leader di
nicchia, che producono ed esportano beni di lusso o di elevata sofisticazione
tecnologica. Anche nel terziario si imputano i ritardi ai segmenti tradizionali
(il commercio al dettaglio, la pubblica amministrazione, le utilities), ma è
anche vero che proprio nel terziario si trovano molte aziende innovative.
La
vera domanda tuttavia è: perché? Perché mai i capitali si indirizzerebbero in
Italia verso settori poco redditizi, mentre in altri paesi si concentrano
maggiormente in quelli che lo sono maggiormente? Non esistono significativi
vincoli normativi, né barriere fisico – tecniche di qualche rilevanza.
In
generale si imputa la colpa alla “carenza di politiche industriali”. Questa è
l’eterna illusione statalista, che ritiene possibile ed auspicabile
l’intervento pubblico diretto o indiretto nell’economia. Ma non è paradossale
che tale “soluzione” sia invocata proprio in Italia, stante la lentezza notoria
del nostro apparato pubblico, che interverrebbe in forte ritardo rispetto
all’evoluzione dei mercati? In verità occorre chiedersi quali siano i settori
che generano maggiore valore aggiunto: in linea generale sono quelli che
incorporano più rapidamente i risultati di ricerche tecnologiche e quelli che
si trasformano per l’emergere di nuovi modelli di business.
Nel
primo caso è facile trovare i dati relativi agli scarsi investimenti in ricerca
(sia pubblica che privata), ma siamo sicuri che si tratti della vera causa?
Quando si approfondisce il punto emergono sempre la carenza principale nel
trasferimento di know-how dalla ricerca all’azienda e il numero esiguo di
aziende che fanno ricerca. Come mai? Colpa dell’Università? Eppure i nostri
ricercatori vanno sempre più spesso all’estero, non trovando opportunità in
Italia. E molti di loro ottengono ottimi risultati. E in ogni caso esiste molto
know-how disponibile, anche in altri paesi, che potrebbe essere incorporato
nelle nostre produzioni.
Nel
caso dei modelli di business il cambiamento parte quasi sempre da una grande
azienda o da una nuova azienda in forte crescita. In Italia queste aziende sono
poche.
In
entrambi i casi la piccola dimensione delle aziende italiane, e soprattutto la
loro scarsa propensione alla crescita dimensionale, è più che un indizio.
2. Scarsi
investimenti in ICT
Molti
studiosi propendono per questa spiegazione: i principali incrementi di
produttività si sono ottenuti grazie alla massiccia introduzione di tecnologie
informatiche, che hanno consentito risparmi di personale, concentrazione di
servizi, rapidità di decisione e azione. Il grafico che segue (percentuale di
investimenti in ICT sul totale del capitale fisso non residenziale) sembra dar
loro ragione:
Anche
in questo caso la caduta italiana inizia nel 2001, senza peraltro aver
beneficiato del picco di investimenti sperimentato da altri paesi nel
quinquennio precedente. Se quindi pare essere stata identificata l’arma del
delitto, manca tuttavia il movente. Non esistono limiti legislativi alla
circolazione di hardware e software, né significative carenze di know-how.
Chiunque operi nel settore ha sempre però riscontrato la peculiarità del nostro
tessuto di aziende, molto sbilanciato verso quelle di piccola dimensione, in
cui la rapida penetrazione di nuove tecnologie è più lenta e di portata inferiore.
3. Le piccole
dimensioni
La terza area d’indagine affronta direttamente il
tema delle dimensioni d’impresa. D’altra parte la distribuzione
dell’occupazione in Italia presenta una ripartizione fortemente sbilanciata
verso le piccole imprese, come mostra questo grafico, (distribuzione
percentuale delle aziende, raggruppate per numero di dipendenti):
Occorre
tuttavia dimostrare che le piccole imprese siano la fonte della crisi di produttività.
Il grafico che segue parrebbe confermarlo.
Sia
nei comparti manifatturieri che in quelli dei servizi la produttività delle
piccole aziende italiane è molto inferiore, mentre è addirittura superiore in
quella delle grandi imprese. Ma anche in questo caso ciò che conta è la
spiegazione. E’ vero in effetti che in Italia riescono a sopravvivere
moltissime piccole imprese improduttive, tanto da compromettere il dato medio
della categoria. In altri paesi la dimensione ha un peso fondamentale nella dinamica
competitiva: il più grande vince e i piccoli per sopravvivere devono essere
molto efficienti. La dimensione sembra contare di più che in Italia, accade
così che possano sopravvivere anche grandi imprese relativamente inefficienti.
Ma
il primo grafico si riferiva alla crescita della produttività, non al suo
valore assoluto.
Tutti
e tre i filoni d’indagine, e anche i numerosi altri non citati, sono efficaci
nella rappresentazione, ma poco significativi nella ricerca delle cause reali.
Sembrano tutti suggerire che in qualche modo la piccola dimensione sia la causa
principale, ma questa è sempre stata una caratteristica del sistema italiano.
Perché e da quando piccolo non è più bello? E perché, se così è, il mercato non
riesce ad imporre un netto cambiamento di direzione? L’analisi che segue abbandona
le variabili macro-economiche e utilizza invece alcuni esempi.
Mi
pare infatti che questi possano spiegare in modo più diretto e intuitivo ciò
che è accaduto e continua ad accadere. Con qualche possibilità in più di
individuare le soluzioni.
La piccola impresa degli anni ’60-‘70
Prendiamo
come primo esempio una piccola impresa di produzione, nata per iniziativa di un
ex dipendente di un’azienda manifatturiera, che ha affittato un piccolo
capannone, acquistato alcuni macchinari e assunto alcuni operai. Migliaia e
migliaia di imprese sono nate così, sfruttando le conoscenze di settore e
l’iniziativa di ex operai, divenuti imprenditori. Le ragioni del successo di
queste imprese sono la loro flessibilità e la crescente domanda di beni, tipica
dei paesi che escono dalla povertà e dalla guerra. La flessibilità è la ragione
della loro nascita: rispetto ad un’organizzazione del lavoro connotata da
crescente rigidità, con manodopera a
costo fisso, una piccola unità esterna riduce i rischi e gli investimenti del
suo principale cliente, la grande azienda. La crescita della domanda di beni è
la ragione della loro sopravvivenza, consentendo alle piccole aziende di
diversificare i clienti e di mantenere quindi una saturazione elevata di
impianti e manodopera. I costi di gestione di queste aziende sono molto
limitati (un ragioniere per l’amministrazione o poco più), i costi
infrastrutturali e gli investimenti per unità prodotta paragonabili a quelli
della grande azienda. Il lavoro del novello imprenditore, e spesso della sua
famiglia, dei suoi parenti e amici, il loro entusiasmo, l’impegno, le ore
effettive di lavoro (spesso di giorno e di notte) fanno però la differenza.
Nello schema ne vediamo gli effetti sulla produttività (in modo molto
semplificato):
A
parità di ore teoriche di lavoro remunerate, aumenta il valore aggiunto, ovvero
la quantità di beni prodotti, e di conseguenza il profitto dell’imprenditore.
Anche la grande impresa ottiene probabilmente benefici, esternalizzando quelle
fasi produttive più difficilmente saturabili o che richiedono personale
specializzato e flessibile.
Come
secondo esempio prendiamo un negozio di alimentari, aperto da un
neo-imprenditore in un quartiere di nuova costruzione. La comoda posizione, più
vicina alle abitazioni rispetto a quella dei negozi presenti nei quartieri
limitrofi, sorti in precedenza, consente al commerciante di attirare
immediatamente la clientela e di mantenere prezzi simili o anche un po’ più
elevati rispetto alla concorrenza. I suoi clienti in effetti risparmiano tempo
e non sono costretti ad utilizzare l’auto per fare la spesa, sono quindi
disposti a spendere qualcosa di più a fronte della comodità. La produttività di
ciascun negozio è simile, a parità di dimensioni, di assortimento e di orari;
peraltro le due ultime variabili sono regolate da norme e non sono quindi
variabili concorrenziali. Ciascun negozio serve un bacino limitrofo e offre
prodotti richiesti da una clientela abbastanza omogenea, più ricca in alcune
zone e meno ricca in altri. Mano a mano che le città crescono, i nuovi negozi
coprono i nuovi quartieri, con parametri di produttività simili a quelli dei
negozi già esistenti. L’intuito commerciale e l’affidabilità consentono di
scegliere le zone con una clientela con più alto potenziale di spesa, che è il
vero motore di crescita della produttività per questi esercizi.
L’evoluzione degli anni ’80-‘90
Nel
corso degli anni ’80 l’economia dei paesi sviluppati avvia una profonda
trasformazione, favorita da una crescente circolazione di merci, persone e
capitali. La grande impresa manifatturiera riorganizza la produzione, controlla
e riduce i costi, adotta processi più efficienti, sviluppa i sistemi
informativi, crea nuovi prodotti, articola l’organizzazione commerciale e il
marketing. La piccola impresa del nostro esempio rinnova i macchinari, produce
nuovi prodotti, per tenere il passo con una domanda sempre più esigente.
Aumentano le regole e gli adempimenti, di natura amministrativa, fiscale,
legale, ambientale; il fondatore comincia ad inserire in azienda la seconda
generazione, ma deve comunque ricorrere ad esperti in diversi campi. Il vecchio
ragioniere non basta più. Aumentano i dipendenti non direttamente impegnati
nella produzione, ma soprattutto i collaboratori e i consulenti autonomi. Ritarda
gli investimenti in sistemi informativi, i cui costi non sono del tutto
proporzionali alla dimensione: esiste infatti una soglia d’ingresso,
nell’acquisto di hardware e software, ma soprattutto nella gestione del
progetto, non comprimibile. Poco alla volta la maggiore produttività della
piccola impresa si erode e spesso inizia a diminuire:
Il
nostro commerciante subisce invece la sfida dei supermercati, il cui modello è
intrinsecamente più efficiente: grazie ai volumi acquistano a prezzi più bassi,
le consegne maggiormente concentrate riducono i costi di trasporto, la maggior
parte dei prodotti è a libero servizio, il personale operativo si dedica quasi
esclusivamente al movimento delle merci e alle casse. Gli ampi parcheggi
rendono accessibili le grandi strutture anche a chi non abita nelle vicinanze,
l’ampiezza dell’assortimento e i prezzi inferiori attirano clientela da un
bacino molto più vasto. Gli investimenti sono notevoli, è vero, ma i grandi
volumi consentono di ammortizzarne il peso. Il nostro commerciante compete
grazie al servizio e alla specializzazione, che gli consentono di vendere a
prezzi un po’ più alti. Ma poco alla volta la sua clientela si riduce e
soprattutto riduce gli acquisti presso di lui, aumentando contemporaneamente
quelli al supermercato. La produttività del piccolo negozio inevitabilmente
diminuisce.
Questi
esempi molto semplificati non rendono tuttavia l’idea del progressivo blocco
della produttività italiana. Pensate ora in scala nazionale e prendete ad
esempio le transazioni commerciali che un tale sistema genera: contratti,
trattative sui prezzi, sconti, fatturazioni, pagamenti, ritardi nei pagamenti.
Immaginate quanto di tutto ciò scompaia, a parità di volumi, all’interno di poche
grandi organizzazioni, con funzioni specializzate, i cui sistemi informativi
riescono a gestire ampiezza e complessità dei movimenti. Allo stesso modo
confrontate i flussi fisici ed immaginate la difficoltà di organizzare una
logistica così frammentata tra innumerevoli punti di ritiro e di consegna.
Ciascuna impresa deve poi redigere il bilancio, effettuare la dichiarazione dei
redditi, ottenere autorizzazioni amministrative, effettuare controlli sanitari
e ambientali. Mentre gli strumenti di gestione della dimensione e della
complessità organizzativa diventano sempre più sofisticati, aumentano
contemporaneamente gli adempimenti, difficilmente comprimibili in base alla
dimensione d’impresa.
E’
il mercato che guida questa evoluzione, in modo peraltro simile in tutto
l’occidente. Ma in Italia si aggiunge il rapporto di crescente complessità con
la Pubblica Amministrazione, che non è un fattore marginale nella crescente
difficoltà delle piccole imprese di tenere il passo con la produttività: l'incidenza
dei costi per adempimenti amministrativi rispetto al totale dei costi aziendali
diminuisce infatti fortemente all'aumentare della dimensione dell'impresa. In
particolare, l'incidenza è massima (stimata nel 2000[1]
in 1,7%) nelle imprese che si collocano nella classe 6-9 addetti ed è minima
(0,2%) nelle imprese con più di 200 addetti.
Il nuovo millennio e l’evidenza della
crisi di sistema
In
linea teorica l’effetto di queste dinamiche avrebbe dovuto avere un esito
scontato: il consolidamento delle aziende più grandi, la crescita e
l’aggregazione di quelle medie, la forte riduzione di quelle piccole. Non è
avvenuto.
Non
è avvenuto perché gli imprenditori non prendono decisioni (solo) in base alla
produttività. Nel caso italiano prevalgono altre variabili, di natura
prevalentemente sociale, molto più comprensibili e più direttamente correlate
alle decisioni.
Prima
di giungere all’ondata di fallimenti e chiusure iniziata nel 2008, il tessuto
produttivo e terziario italiano ha bruciato energie e risorse nella resistenza
al cambiamento.
La
piccola impresa manifatturiera del nostro esempio si è gradualmente spostata
verso attività molto specifiche, in sub-fornitura, allontanandosi sempre di più
dal mercato finale. In alternativa avrebbe dovuto investire non tanto in
macchinari, quanto in competenze (commerciali, di marketing, di sviluppo e
ingegneria di prodotto, di ricerca e sperimentazione di nuove tecniche e
materiali). La scelta di concentrarsi è invece più congeniale all’imprenditore
che pone il controllo, non soltanto societario, come priorità: come si è “fatto
da solo”, così continua sostanzialmente da solo, non esce dalla “zona di
controllo” in cui può decidere rapidamente, basandosi sulla sua esperienza.
Il
negozio di alimentari vede ridursi i volumi, i ricavi e i margini; raggiunge
con difficoltà il pareggio, anche riducendo al massimo il reddito
dell’imprenditore. Pagare poche tasse è
sempre più difficile e rischioso e il valore dell’attività, in caso di
cessione, tende a zero. Ma quali alternative può avere chi ha fatto questo
lavoro per tutta la vita? E inoltre il commercio, quasi paradossalmente,
continua a vedere nuove aperture: da parte di immigrati, ma anche di italiani
che possiedono una cifra sufficiente ad aprire un negozio e sperare di
indovinare il posizionamento, di offerta e di localizzazione. Spesso
l’alternativa è la disoccupazione.
Avviene
lo stesso anche per molte professionalità del terziario, che le grandi imprese,
alla ricerca di efficienza e internazionalizzazione, non cercano in quantità
sufficiente ad assorbire l’offerta. In assenza di servizi efficaci di
orientamento e collocamento, la via del lavoro autonomo rimane più facilmente
praticabile, specialmente se chi la sceglie ha spirito pratico e una rete di
contatti.
In
più, le imprese più grandi sono presenti nelle città più grandi. Chiudere la
propria attività locale significa quindi, con molta probabilità, scegliere se
trasferire la residenza o affrontare maggiori tempi di spostamento. In un paese
in cui la proprietà dell’abitazione è molto diffusa può anche significare
sobbarcarsi i costi aggiuntivi di un affitto o la difficoltà di una
compravendita immobiliare. Per non dire della scarsa propensione ad abbandonare
ambienti e stili tradizionale di vita: un imprenditore, anche piccolo, è spesso
stimato e rispettato in un piccolo paese, il passaggio a lavoratore “salariato”
può essere percepito come riduzione di status.
Si
tratta di scelte sono guidate dalla ricerca di un reddito e da altre
considerazioni sociali, non dalla produttività; rimangono quindi in gioco
decine di migliaia di piccole aziende e di lavoratori autonomi, che formano
mercati iper-segmentati e rendono particolarmente difficile e onerosa la
crescita delle imprese più grandi, in molti settori. L’impresa grande, che vi dedica
investimenti e organizzazione, deve infatti pianificare l’espansione e realizzarla
in tempi rapidi e con costi prevedibili.
Nelle
piccole imprese che sopravvivono è nel frattempo aumentato il peso economico
della famiglia allargata nell’azienda, talvolta anche le spese improprie.
Rendendosi conto che il business non genera più i profitti di un tempo l’imprenditore
utilizza i capitali accumulati investendoli in altri settori: l’immobiliare, la
finanza. Il risultato finale, in termine di reddito familiare, è spesso
soddisfacente. Ma anche quando non lo è, risulta molto difficile trovare
alternative migliori: il lavoro richiede profili con cultura internazionale,
competenze specialistiche, propensione all’innovazione. Caratteristiche
difficilmente presenti in chi “si è fatto da sé”, ma anche raramente
identificate come prioritarie nell’educazione dei suoi figli, nell’illusione
che quel modello di azienda familiare durasse per sempre.
E
la Pubblica Amministrazione? Anche qui è la ricerca di un reddito che guida le
scelte: sposandosi alla speculare ricerca di consenso politico evita di
riformare gli uffici e genera, ovunque riesce, nuovi “posti” di lavoro. L’aumento
risulta particolarmente accentuato proprio quando è ormai urgentissima
l’inversione di tendenza, come mostra questo grafico[2]
:
Produttività e redditi
Quando
si parla di vincoli alla crescita di produttività del lavoro ci si concentra
normalmente sulla legislazione del lavoro, in particolare su quelle regole che
rendono più difficili le ristrutturazioni delle imprese. Si tratta di trovare
un equilibrio, nel breve termine, tra la riduzione del personale (che consente
un aumento di produttività) e la difesa del reddito di chi viene licenziato.
Il
medesimo conflitto strutturale avviene tuttavia in modo meno evidente
attraverso la resistenza di molte piccole imprese e monopersonali, ma è ben più
difficile intervenire per via legislativa. In teoria dovrebbe guidare il mercato e si
tratterebbe quindi di eliminare qualunque ostacolo si oppone alla piena
concorrenza, che finirebbe così per far prevalere le imprese più grandi.
In
pratica però il sistema regolatorio esistente in Italia ha creato numerosissime
situazioni di protezione e di difesa “di fatto” delle piccole imprese e il
crollo di queste difese rischierebbe di generare effetti pesantissimi sui
redditi di intere categorie.
Occorre
quindi procedere facendo chiarezza, innanzi tutto, ed evitando di alimentare
aspettative irrealistiche. Occorre soprattutto parlare di lavoro, di tutto il
lavoro, non solo di quello dipendente.
D’altro
canto si deve uscire dalla retorica della piccola impresa senza distruggere le
forze imprenditoriali innovative e creative, gestendo invece la transizione, il
consolidamento e la crescita dimensionale nei tanti settori tradizionalmente
riservati al lavoro autonomo e alle imprese monopersonali.
Gli
spunti proposti non hanno certamente la pretesa di riassumere in poche pagine
le analisi approfondite esistenti e ancora da scrivere sul tema della
produttività italiana. Cercano però di dare una chiave di lettura razionale e
complessiva di un fenomeno, evidente quanto peculiare del nostro paese,
favorendone l’approfondimento e la comprensione delle cause.
Per
quanto sia necessario analizzarne e comprenderne le ragioni è tuttavia urgente
intraprendere un percorso che consenta all’economia italiana di recuperare
rapidamente competitività. L’unica alternativa è la decrescita. Infelice,
ahimè.
Lungo
queste linee si svilupperanno i prossimi due articoli, che di questo rappresentano
il seguito ideale:
-
la scomparsa
di lavoro autonomo e dipendente
-
dopo le PMI
[1] A.Panzeri - Impresa e
Stato nr.53 – Camera di Commercio di Milano
[2] Imprese e burocrazia. Ottavo Rapporto Nazionale 2013 – Franco Angeli