Nell’indimenticabile
“secondo tragico Fantozzi” la sacralità del cineforum aziendale viene rotta dal
grido “La corazzata Potemkin … è una cagata pazzesca !”, scatenando l’applauso
liberatorio del pubblico.
Forse è
giunto il momento che qualcuno salga sul palco della scena economica e dica lo
stesso del rapporto debito / PIL, dal quale parrebbero dipendere i destini di
alcune tra le più grandi economie mondiali.
La colpa
non è ovviamente di quel povero numero, peraltro semplice e facilmente
comprensibile, ma dell’uso che se ne fa. E fino a quando ci si limitava ad
utilizzarlo come misura della dimensione del debito pubblico di un paese, non c’era
niente di male. Il debito dell’Italia è certamente grande rispetto alle sue
dimensioni economiche (il PIL), quello del Giappone è ancora più grande, quello
della Svezia molto inferiore. Dati incontestabili.
Il
problema nasce da quando l’innocente ratio
è divenuto uno dei parametri di controllo delle economie europee, con la
fissazione di un valore – il 60% - scelto quale soglia tra virtù e pericolo.
Dall’inizio
(2008) della fase d’instabilità che tuttora è in corso, quasi tutti i debiti
dei paesi occidentali sono notevolmente cresciuti, ponendo implicitamente il
problema di determinare una nuova soglia e comunque evidenziando la crescente
difficoltà di rientro dei paesi più indebitati, tra i quali l’Italia spicca per
dimensioni.
Ma quando
si parla di ridurre tale rapporto le cose si complicano notevolmente e nessuno
pare avere trovato la ricetta: posto che per ridurre il debito è necessario
cedere asset o generare avanzi di
bilancio, come procedere? L’Europa e il FMI, pur prodighi di consigli, lasciano
comunque campo libero ai legislatori nazionali, quasi che ogni ricetta, a
parità di risultato, si equivalga.
E invece
non è così. Non esiste infatti un livello “ottimale” di debito, che peraltro si
forma e si riduce nella sua parte più rilevante in periodi di discontinuità ed
eventi storicamente rilevanti. La possibilità poi di cedere asset e ridurre il
debito si rivela spesso difficile da realizzare, per ragioni politiche o di
mercato.
Anche i
tentativi scientifici di determinare una soglia oltre la quale il debito
elevato diviene “critico” e provoca crisi economica hanno prodotto risultati
tutt’altro che incontrovertibili.
Il fatto
è che il debito elevato comporta due generi di problemi: 1) implica il
pagamento di interessi ai creditori dei titoli di stato, a ciò destinando
perciò una quota della tassazione 2) aumenta il rischio di non riuscire a far
fronte il pagamento del debito, innescando una spirale di rendimenti crescenti
dei titoli e in definitiva l’insostenibilità dei flussi di cassa d’equilibrio
nel medio termine.
Nel primo
caso il debito può anche essere una scelta, paragonabile a chi utilizza il
debito per stabilizzare il proprio tenore di vita o per affrontare gli
andamenti ciclici dell’economia: paga un prezzo a fronte di una relativa
protezione rispetto a queste fluttuazioni.
Nel
secondo caso il problema è più grave, ed è soprattutto quello che preoccupa i
creditori. Notoriamente il problema di un debito troppo elevato è in primis del creditore, non del
debitore.
La sola dimensione
del debito (il rapporto debito / PIL) non dice nulla di questo rischio, lascia
solo intuire che è più alto se il debito è elevato. Ma quanto e quando si
modifica il rischio d’insolvenza di uno stato?
Come ci
mostra anche la storia recente, occorrerebbe definire un indicatore sintetico
in grado di rappresentare la capacità di reazione di un paese in caso di crisi
del debito sovrano e misurarne il grado di rischio in relazione alle politiche
economiche in essere.
Tra tutte
è la variabile fiscale a risultare decisiva, e lo è ancor di più in assenza di
leve monetarie disponibili a livello di singolo paese (come accade
nell’Eurozona).
Con l’uso
della leva fiscale è possibile infatti tentare di stimolare la crescita del PIL
o rendere maggiormente accettabili i tagli alla spesa. E non è affatto
irrilevante se il saldo positivo di bilancio (o almeno l’avanzo primario, al
netto cioè della spesa per interessi) si ottiene con l’aumento delle imposte o
con la diminuzione della spesa.
Un paper
recente ad opera di Ricardo Fenochietto e Carola Pessino, intitolato “Understanding countries tax effort”, pubblicato nel novembre 2013 dal FMI, presenta un
indicatore utilizzabile a questo scopo: la “Capacità Fiscale (Tax Capacity)” che rappresenta il
massimo livello di tassazione raggiungibile da un paese.
La Tax Capacity descritta nello studio
deriva a sua volta dal livello effettivo di tassazione corretto in base ad un
altro indicatore, il Tax Effort, che
dipende da variabili come il PIL pro-capite, il grado di apertura ai commerci
internazionali, l’incidenza dell’agricoltura nel PIL, la spesa pubblica per
l’educazione, la distribuzione del reddito tra i cittadini, l’inflazione e il livello
di corruzione percepito. Gli studi dei due ricercatori mostrano le correlazioni
tra queste variabili e la possibilità teorica di rendere accettabile e praticabile
un livello di tassazione più o meno elevato in un paese dato.
La
tabella seguente, che utilizza i dati del paper
citato, mostra i valori dell’anno 2011 delle “Entrate fiscali / PIL (Tax Rev)”, il grado di utilizzo e di
efficacia della leva fiscale (Tax Effort)
e appunto la Capacità fiscale (Tax Capacity)” derivante da Tax Rev / Tax Effort .
Tax Rev | Tax Effort | Tax Capac. | |
Cina | 18,9 | 0,48 | 39,1 |
India | 15,8 | 0,53 | 29,6 |
Irlanda | 27,7 | 0,61 | 45,2 |
Giappone | 28,8 | 0,64 | 45,2 |
Turchia | 26,7 | 0,66 | 40,3 |
USA | 24,5 | 0,68 | 36 |
Australia | 26,1 | 0,70 | 37,1 |
Portogallo | 32,4 | 0,71 | 45,6 |
Polonia | 33,7 | 0,76 | 44,5 |
Sudafrica | 27,8 | 0,76 | 36,6 |
Spagna | 32,7 | 0,78 | 41,7 |
Grecia | 33,4 | 0,79 | 42,4 |
Germania | 39,5 | 0,79 | 49,9 |
Brasile | 29,7 | 0,81 | 36,6 |
Regno Unito | 35,8 | 0,82 | 43,6 |
Austria | 42,1 | 0,93 | 45,2 |
Svezia | 44,3 | 0,94 | 47 |
Francia | 42,6 | 0,96 | 44,6 |
Italia | 42,2 | 0,98 | 43,1 |
In questa
classifica, ordinata in base al Tax
Effort, molti paesi europei si trovano nella parte bassa, l’Italia è ultima
su 96 paesi, a pari merito con lo Zambia.
Non
rientra tra gli scopi di questo scritto analizzare la validità dell’indicatore
ed il peso delle variabili che lo compongono, ma i risultati sono certamente
interessanti: mostrano che paesi come il nostro non hanno soltanto una
pressione fiscale elevata, ma sono anche pericolosamente vicini al tetto
massimo raggiungibile.
Ritornando
alla nostra “corazzata Potemkin” è ancor più interessante utilizzare
l’indicatore Tax Capacity in
relazione al debito. In particolare ciò che conta ai fini del controllo del
debito è il potenziale di utilizzo della leva fiscale disponibile, che possiamo
chiamare Tax Potential e calcolare sottraendo
il tasso effettivo di Entrate fiscali (Tax
Rev) dal valore di Tax Capacity.
Applichiamo
poi l’indicatore Tax Potential al
rapporto Debito / PIL del 2012 (assumendo quindi che Tax Capacity sia rimasta invariata dall’anno precedente).
Pos.
Deb/ GDP |
Deb/GDP 2012 |
Tax Rev | Tax Capac. | Tax Potent | Deb/GDP/ TaxPot | |
1 | Cina | 16,3 | 18,9 | 39,1 | 20,2 | 0,8 |
2 | Australia | 24,8 | 26,1 | 37,1 | 11 | 2,3 |
4 | Turchia | 37,6 | 26,7 | 40,3 | 13,6 | 2,8 |
5 | Sudafrica | 42,8 | 27,8 | 36,6 | 8,8 | 4,9 |
9 | India | 69,9 | 15,8 | 29,6 | 13,8 | 5,1 |
6 | Polonia | 57,3 | 33,7 | 44,5 | 10,8 | 5,3 |
17 | Irlanda | 121,5 | 27,7 | 45,2 | 17,5 | 6,9 |
14 | Portogallo | 94,6 | 32,4 | 45,6 | 13,2 | 7,2 |
8 | Spagna | 67,1 | 32,7 | 41,7 | 9 | 7,5 |
11 | Germania | 79,4 | 39,5 | 49,9 | 10,4 | 7,6 |
15 | USA | 102,9 | 24,5 | 36 | 11,5 | 8,9 |
7 | Brasile | 65 | 29,7 | 36,6 | 6,9 | 9,4 |
12 | Regno Unito | 86,5 | 35,8 | 43,6 | 7,8 | 11,1 |
3 | Svezia | 34,9 | 44,3 | 47 | 2,7 | 12,9 |
19 | Giappone | 233,4 | 28,8 | 45,2 | 16,4 | 14,2 |
18 | Grecia | 157,7 | 33,4 | 42,4 | 9 | 17,5 |
10 | Austria | 70,7 | 42,1 | 45,2 | 3,1 | 22,8 |
13 | Francia | 86,9 | 42,6 | 44,6 | 2 | 43,5 |
16 | Italia | 120 | 42,2 | 43,1 | 0,9 | 133,3 |
Il nuovo
indicatore Debito / PIL / Tax Potential
è una sorta di tasso di rotazione del Debito: immaginando di utilizzare sempre
l’intero Tax Potential, rappresenta
il numero di anni necessari ad azzerare il debito.
Se i
primi due posti della classifica rimangono invariati, già dal terzo compaiono
le differenze: la Svezia risulta meno “virtuosa” di quanto apparisse senza
considerare il Tax Potential,
migliorano invece notevolmente Irlanda e Portogallo. Situazione praticamente
invariata per Germania e Francia, mentre l’Italia scende all’ultimo posto, praticamente
fuori scala, con forte distacco dalla penultima (la Francia) e presentando una
situazione molto peggiore rispetto a Grecia e Giappone.
Ma
l’aspetto interessante dell’indicatore non è la fotografia della situazione,
bensì gli effetti delle politiche fiscali su di esso.
Ipotizziamo
che ciascun paese attui una manovra di taglio delle imposte che peggiora di 5
punti percentuali il rapporto Debito / PIL ma migliora di 1 punto il Tax Potential, grazie alla diminuzione
delle entrate fiscali effettive. Ecco i risultati:
Deb/GDP/ TaxPot | Deb/GDP/ TaxPot REV |
|
Cina | 0,8 | 1,0 |
Australia | 2,3 | 2,5 |
Turchia | 2,8 | 2,9 |
Sudafrica | 4,9 | 4,9 |
India | 5,1 | 5,1 |
Polonia | 5,3 | 5,3 |
Irlanda | 6,9 | 6,8 |
Portogallo | 7,2 | 7,0 |
Spagna | 7,5 | 7,2 |
Germania | 7,6 | 7,4 |
USA | 8,9 | 8,6 |
Brasile | 9,4 | 8,9 |
Regno Unito | 11,1 | 10,4 |
Svezia | 12,9 | 10,8 |
Giappone | 14,2 | 13,7 |
Grecia | 17,5 | 16,3 |
Austria | 22,8 | 18,5 |
Francia | 43,5 | 30,6 |
Italia | 133,3 | 65,8 |
Non
cambiano evidentemente le posizioni (per la natura stessa della simulazione),
ma il miglioramento dell’Italia è impressionante, quello della Francia molto
notevole.
Solo
Cina, Australia e Turchia peggiorano leggermente il loro ratio, ma si tratta dei paesi con grado di rischio inferiore tra
quelli considerati e con un livello di Debito
/ PIL / Tax Potential così basso da risultare poco significativo.
Proviamo
poi a ipotizzare che l’Italia riesca a raggiungere un livello di Tax Potential uguale a quello della
Germania: il rapporto Debito / PIL / Tax
Potential scenderebbe a 10,6, si collocherebbe tra i valori attuali di
Brasile e UK e sarebbe molto migliore rispetto a quello di Austria e Francia.
Se invece
calcolassimo l’indicatore per l’Eurozona, il cui rapporto Debito / PIL è 95,7%
(Q2/2013, elaborazione su fonte Eurostat),
ipotizzando di allineare il Tax Potential
a quello della Germania, il valore Debito / PIL / Tax Potential sarebbe
9,2. Con un percorso di convergenza fiscale, che preveda ad esempio un
allineamento del livello base di tassazione e spesa pubblica conseguente, si
potrebbe prevedere un’aliquota fiscale aggiuntiva per i Paesi più indebitati,
da destinare alla riduzione del debito, creando le condizioni necessarie
all’emissione di Eurobond.
Fino a
quando non vi sarà un elevato grado di coerenza e convergenza delle politiche
di bilancio è infatti illusorio pensare di mutualizzare il debito
nell’Eurozona: è ciò che sostiene anche l’autore del saggio “La moneta
incompiuta”, al di là della boutade di “mettere
in comune il PIL europeo” .
In
conclusione: l’esempio proposto è certamente migliorabile, gli indicatori
utilizzati vanno sottoposti a revisione critica e le metriche utilizzate
possono essere affinate. Tuttavia credo che colga un’esigenza reale e indichi
una via praticabile verso la definizione di un indicatore sintetico, in grado
di mostrare la correlazione tra debito pubblico e grado di rischio, per il
tramite delle politiche fiscali degli stati.
Per i paesi
sviluppati e indebitati legare ad un indicatore di questo tipo il monitoraggio
della UE e dell’FMI potrebbe consentire di affrontare una riforma fiscale
quanto mai necessaria senza la spada di Damocle del pareggio di bilancio,
scoraggiando contemporaneamente l’utilizzo di politiche di spesa, che invece
peggiorerebbero il ratio.
Per i
paesi in via di sviluppo la sfida è invece incrementare la Tax Capacity, che rappresenta la garanzia di lungo termine sulla
sostenibilità di politiche espansive.