Dopo
l’ennesima sconfitta elettorale i liberali dovrebbero porsi alcune domande, e
forse privatamente se le pongono. Non si può dire che sia mancato l’impegno
negli ultimi 20 anni: a partire dal movimento del Buon Governo (primo embrione
di Forza Italia) all'ultimo patchwork
di Scelta Europea, i liberali italiani hanno costruito think tank, fatto conoscere i loro autori antichi e recenti,
mantenuta viva la visione dei grandi padri politici di successo, progettato
partiti, litigato tra di loro, provato a fermare il declino, sognato un futuro
diverso. Ma sia da soli che in compagnia, in purezza o blended, i risultati non sono arrivati.
Non
si può dire che negli altri paesi occidentali siano andati meglio. Dopo
l’epopea di Reagan e Thatcher hanno dovuto accontentarsi, quando è andata bene,
di un ruolo minoritario in governi di coalizione. Sono nati i Tea Party, è
vero, ma per ora sembrano figli di una politica radicale, di stile confessionale,
animata da minoranze rumorose come altre negli USA.
Forse
è il momento di fare i conti con la storia, soprattutto con quella recente.
I
liberali hanno di fronte due vie principali:
- l’eterna promessa
- il sale della
politica
L’ETERNA
PROMESSA
Fino
a quando esisterà uno stato rigonfio, ingombrante, costoso, opprimente
esisteranno i liberali. Non importa quanti voti prendono: governare secondo i
principi liberali potrà sembrare un’utopia, ma occorre tenere alta la bandiera
delle idee e impedire che statalisti, socialisti, egalitaristi e relativo
codazzo di clientes opportunisti
vincano senza combattere.
Magari
in una futura dissoluzione degli stati come oggi li conosciamo potranno nascere
piccole enclave liberali. Magari
prima o poi da qualche parte la corda statalista si spezzerà.
Per
seguire questa via occorrono chiarezza d'idee, risorse economiche e impegno
disinteressato. Costi certi per risultati incerti.
Per
evitare l'obsolescenza occorre declinare realisticamente il pensiero liberale
in coerenza con i tempi, aggiornandolo continuamente ed evitando le soluzioni
semplicistiche, figlie di società in crescita materiale, che uscivano dalla
povertà.
Occorre
anche fare i conti con l'idea di libertà, che costituisce la radice, non solo
semantica, del liberalismo.
Libertà
che la gran parte dei liberali declina come libertà individuale. L'eccessivo
accento su questa particolare dimensione della libertà è a mio parere una delle
cause d’insuccesso dell’idea liberale. L'individuo solitario, indipendente
nelle scelte ed economicamente autosufficiente può rappresentare l’aspirazione
di molti, ma è di fatto incarnato da chi fa parte di un'élite economica o di potere. E’ quindi logico che la maggioranza,
che ricca non è e guarda alle élite con
crescente antipatia, affidi ad altri i suoi destini politici.
Questa
enfasi eccessiva sulla libertà individuale schiaccia inoltre due grandi
manifestazioni di libertà personale: la libertà religiosa e quella associativa.
Partiamo
dalla seconda: l'idea che l’individuo sia l'unica entità sociale rilevante
rischia di essere il miglior alleato per un potere forte e centrale. Escludendo
le aggregazioni intermedie e la possibilità di trovare accordi e soluzioni
accettabili senza ricorrere allo stato, si rende sempre necessario il ricorso
all'Arbitro Unico, per qualunque dissidio possa nascere nella società. E perché
poi le persone non dovrebbero potersi aggregare e farsi rappresentare
collettivamente, per avere maggiore forza, come nel caso dei sindacati? Occorre
realisticamente scegliere: per de-costruire lo stato occorre lasciare spazio ad
altre entità sociali, più mobili, meno codificate, libere nell'adesione,
democratiche nelle scelte, ma organizzate e forti di una volontà collettiva. Se
il nemico è lo stato, occorre attaccarlo scientificamente, proponendo modelli
alternativi di governo e di aggregazione sociale.
Il
secondo grande limite dell'idea liberale prevalente è sostenere che la
religione sia un fatto individuale e privato. La religione, ogni religione, ha
una dimensione sociale e pubblica. Negare questa libertà significa fare prevalere
un'ideologia, quella ateista, che non ha maggiori diritti di essere praticata
rispetto a quelle religiose. Chi crede nel Dio dei cristiani, chi non crede e chi
crede in altro modo sviluppa visioni diverse del mondo, che non si possono
eliminare. Devono trovare il modo di vivere insieme, devono avere la libertà di
provare a convincere gli altri, devono trovare regole comuni di convivenza, per
quanto possibile, ed anche essere liberi di auto-organizzarsi, nei rispettivi
gruppi. Solo chi crede in un'individualità ipertrofica prova disagio in un
contesto religioso.
Allora
qual è l'eterna promessa? Libertà dallo stato o ideologia dell'individuo
autosufficiente? E per quale ragione l'una è necessario complemento dell'altra?
E’ stato persino sfatato il tabù che considerava indispensabile un regime
democratico per sviluppare la libertà economica e noi dovremmo credere che
l’oppressione statale si combatta soltanto con l'individualismo?
D'altronde
abbiamo anche notevoli esempi di ateismo pubblico senza libertà economica.
Si
tratta di dimensioni diverse, il tentativo di giustificare la necessità di un
modello filosofico onnicomprensivo da parte di certi liberali-liberals è del tutto inconsistente.
Meglio tornare all'ambito originario: economia e organizzazione statale. Qui si
può coltivare con qualche speranza l’eterna promessa, scoprendo magari che le
organizzazioni sociali e religiose possono diventare alleati preziosi.
IL SALE
della POLITICA
Seguendo
la seconda via si sposa il pragmatismo, ammettendo che la politica si polarizza
intorno a temi ed argomenti diversi rispetto a quelli prioritari per i
liberali, riconoscendo che in generale (con eccezioni importanti ma
transitorie) il confronto avviene tra due poli destra / sinistra e che le idee
liberali possono dare sapore alle soluzioni proposte dall’uno e dall’altro. E’
evidente infatti che vi sono liberali più sensibili ad una distribuzione
omogenea della ricchezza e al forte contenimento delle organizzazioni
economiche e sociali più grandi e potenti ed altri che invece considerano fisiologiche
le differenze e anche le diseguaglianze sociali, purché non si cristallizzino
con l’aiuto di protezioni pubbliche.
I
primi cercheranno quindi di promuovere, nella loro parte, un capitalismo
“democratico” contro il socialismo e la redistribuzione attraverso le tasse;
gli altri lavoreranno affinché l’ascensore sociale funzioni e regni la meritocrazia.
Liberali
con sfumature, priorità e accenti diversi, divisi negli schieramenti, con alcuni
obiettivi convergenti comuni.
Essere
in pochi, ma in generale acuti e preparati, aiuta in questo caso: le “masse” si
aggregano seguendo altri richiami, ma ci può essere spazio tra i capitani che
poi le guidano. Riducendo in pillole i pensieri liberali, vengono meno anche le
difficoltà di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, il sindacalista e l’anarco-capitalista.
MA E’ un
TRIVIO
Le
due vie non sono né nuove, né mai percorse dai liberali. Se oggi le percentuali
di voto tendono a relegarli a curiosità da Trivial
Pursuit, è perché il bivio è in realtà un trivio.
La
domanda terribile, quella finale, occorre porsela: non si tratterà di un'idea
politica ormai inevitabilmente al tramonto?
Certo,
i liberali sono stati dati molte volte per estinti (grazie a loro stessi,
soprattutto), ma poi sono sempre rinati. Pochi, divisi, problematici, ma
vitali. Ma se questa volta fosse proprio la fine? Se per combattere i nemici di
sempre servisse proprio un altro schema di pensiero? In questo senso la terza via
è nuova, e mi limiterò quindi a tratteggiarla attraverso alcune domande.
- Il pensiero
liberale è nato nell'economia dello scambio e sullo scambio ha costruito
il suo modello di libertà economica. Lo scambio, di beni in particolare,
presuppone come nucleo centrale una relazione tra due individui e la
società è costruita come somma e reticolo di queste relazioni. Ci avviamo
sempre più rapidamente verso un paradigma economico che pone al centro la
condivisione, in cui il valore nasce dal numero di persone che accedono e
condividono beni-servizi in una piattaforma. Organizzazioni
economico-sociali completamente diverse, in cui ciascun individuo è
contemporaneamente produttore e consumatore. Organizzazione liquide, senza
confini fisici, spesso globali. Organizzate e basate sulla conoscenza
reciproca. Ha senso parlare di liberalismo nell'economia della
condivisione?
- In questo
scenario gli stati sono sempre più deboli, ma non rinunciano a controllare gli individui. I gestori delle piattaforme conoscono molto
degli utilizzatori, ma senza condividere le proprie informazioni non si
può accedere. Il nemico è ancora lo stato? O sentiremo sedicenti liberali
che lo invocano in difesa della privacy?
- Nelle economie
sviluppate le persone dedicano tempo ed energie crescenti alla vita
relazionale, sotto diverse forme. Sono numerosissime le organizzazioni che
aggregano sulla base degli interessi più disparati e ciascuna persona può
declinare plurime appartenenze. L'individuo non è una monade, ma una somma
di appartenenze, di interessi, di attività. Gli individui soli ed isolati
sono soltanto i più deboli, quelli che non riescono ad avere relazioni,
quelli disprezzati, respinti. E’ libero chi può agire e muoversi insieme
ad altri, non chi lo fa da solo. Accettiamo ancora il paradosso di
definire “autonomo” il lavoro di chi non è parte formale di
un'organizzazione strutturata. Ma perché dovrebbe essere più autonomo chi ad esempio per
lavorare deve appartenere ad un ordine professionale, deve far parte di
uno o più circoli, essere vicino ad un partito politico, frequentare una
comunità professionale, seguire, leggi specifiche e codici deontologici,
rispetto a chi lavora in un'azienda, rispondendo solo alla sua
organizzazione e alle leggi generali?
- Ha ancora senso
una visione della concorrenza che privilegia la piccola dimensione d'impresa?
E in quali fasi del ciclo di vita è davvero utile la concorrenza? Ha per
esempio senso che, pur sapendo che il ciclo di vita del software è sempre più breve, si esprima come obiettivo concorrenziale la possibilità
di scegliere tra software simili (vedi la “guerra dei browser” di qualche anno fa), limitando la convergenza degli
utenti verso la soluzione vincente invece di proteggere specialmente la concorrenza
nella ricerca?
Queste
e altre domande mi portano a pensare che vada cercata una nuova via. Fino ad
ora ho parlato dei liberali in terza persona, ma non posso dichiararmi neutrale
rispetto all’argomento. Con tutte le differenze, i distinguo e le sfumature del
caso posso dire di far parte idealmente di questa grande famiglia.
Esistono
famiglie più o meno longeve, ma quando tutta l'attenzione si concentra sulla
trasmissione del nome e dell’eredità, ecco: quello è il momento del declino, di
poco precedente all'estinzione.
Ma
da una famiglia che finisce nel nome nascono generazioni giovani, meno condizionate
dal passato, con nomi nuovi e un po’ di geni delle origini nel DNA.