La
dura legge della leadership non
ammette eccezioni: o si conseguono risultati (per fortuna e per merito) o si
passa la mano. Chi non si sottomette a questa legge si trasforma dall'oggi al
domani in casta, in simbolo di tirannia, in catalizzatori dell'odio, sempre latente, verso il potere.
In
politica accade di frequente, perché alla leadership
si associano molto potere e spesso molto denaro. L’ultima crisi italiana di leadership è iniziata nel 2011 e non può ancora dirsi risolta. Abbiamo un leader - diciamo così - in periodo di prova. Uno solo, troppo solo per un paese così complesso.
Gli
italiani sono un popolo con capacità politiche grandi e profonde, benché spesso
disordinate e discontinue. Da circa tre anni stiamo provando con grande fatica
a far emergere nuove leadership,
nuovi modelli di politica, nuovi strumenti. Con qualche passo avanti e
altrettanti indietro. Molta attenzione si concentra sulle regole della
politica: la legge elettorale, gli organi costituzionali, il finanziamento dei
partiti. Il riordino di queste norme è tuttavia condizione necessaria, ma non
sufficiente.
Manca
infatti una riflessione approfondita sui percorsi che conducono le persone alla politica. Lavoriamo sulle "case" della
politica – i partiti, le istituzioni – ma non abbiamo una chiara idea di chi, per fare cosa e percorrendo quali vie debba raggiungere quelle "case". In assenza di grandi modelli ideali e (non rimpianti) grandi partiti, quelle vie sono divenute tortuose, insicure, faticose.
COMPETENZE,
ORGANIZZAZIONE, SELEZIONE, TRASPARENZA
Io credo che la riflessione sui percorsi debba partire dalle competenze. L’idea che chiunque possa
rappresentare, decidere e governare nasconde una realtà molto meno democratica di quanto appaia:
o questo generico cittadino si limita a ricopiare le idee e le
istruzioni di un leader oppure è la mera espressione di un gruppo d’interesse; anche in questo caso si limita a rappresentarne domande, desideri e appetiti.
Un
cittadino competente in alcune materie specifiche, esperto e conscio dei modi e
meccanismi della leadership, abituato
a lavorare in organizzazioni ampie e tra loro diverse, a sviluppare relazioni sociali articolate e
ad associarsi agli altri per raggiungere un obiettivo; un cittadino così
formato sarà più difficilmente manipolabile da un leader con deliri d’onnipotenza o da una lobby vorace.
E’
poi così difficile definire queste competenze? Niente affatto: esistono
metodologie consolidate, lo si fa in molte aziende e organizzazioni no profit e
non vi sono ragioni razionali per non farlo. Salvo la diffusa ritrosia alla
trasparenza, l’orgoglio di chi non vuole essere “valutato”, la superbia di
leader e aspiranti tali sospinti solo da smisurata volontà e ambizione. Troppo
poco per i nostri giorni, troppo poco.
Ma pur disponendo delle migliori competenze, anche le persone teoricamente più adatte alla politica non possono ottenere risultati come individui singoli, privi di
un’organizzazione efficace. Anche in questo caso l’idea che i partiti siano
inutili, che un movimento possa rappresentarne un’alternativa più fluida e
libera, nasconde il desiderio di limitare l’efficacia di chi fa politica. Un
movimento – per sua natura, anche semantica – ondeggia, oscilla in base a
passioni, reagisce in modo impulsivo, si ricompatta nella difficoltà e nella
lotta. In esso prevale quindi chi sa infiammare le passioni, amplificare i
problemi, semplificare le soluzioni, colpire duro e distruggere. Spesso senza
assumere la responsabilità di ricostruire.
I
partiti servono eccome: sono organizzazioni che avrebbero lo scopo di
rappresentare idee e soluzioni, di selezionare (in base alle competenze) le persone più adatte alla politica e quello di fornire loro gli strumenti per raccogliere e
gestire il consenso. Nella
selezione è insito il principio della responsabilità: deve garantire ai
cittadini che i candidati abbiano le caratteristiche adatte per rappresentarli,
che le espongano in modo completo e trasparente, che siano onesti e privi di
ombre.
Non
basta avere un’organizzazione “democratica”, fare le primarie o votare sul web:
occorre che chi si presenta abbia competenze commisurate al ruolo a cui
aspira e che queste siano verificate, comprensibili e comparabili.
Occorre
poi, una volta eletto o nominato, che il suo stesso partito verifichi se
mantiene le promesse.
Oggi
la via per la rappresentanza politica è tortuosa e priva di trasparenza.
Occorre quasi sempre conoscere un leader locale, accumulare crediti praticando favori, portare in dote “pacchetti” di voti o di denaro. Nessuna di
queste attività è necessariamente dannosa o immorale, ma non può supplire all'assenza di
competenze, né vanificare un meccanismo trasparente di selezione.
Potremmo
anche dotarci delle migliori regole del mondo, ma se le vie alla politica rimarranno
oscure, mal frequentate e disorganizzate, il risultato non sarà differente.
LA TRAPPOLA delle RIFORME
Raddrizzate le vie e ripulite le case non m'illudo certo che tutto possa funzionare, automaticamente. Servono "le Riforme". Tutti però si a concentrano su quelle con la "R" maiuscola: quella elettorale, quelle
costituzionali, con l’illusione che da esse discendano poi automaticamente le
altre. Qui scatta la trappola: esausti dopo le discussioni sui massimi sistemi, ci dimentichiamo dell'energia necessaria a farli funzionare.
Perché non provare ad invertire il percorso? Prima si definisce il disegno generale, poi si cambia ciò che si può fare con norme operative e solo infine si modificano, o abrogano, le leggi che ancora impediscono di raggiungere l’obiettivo. In molti casi si raggiungerebbero risultati con decreti ministeriali o addirittura con ordini di
servizio.
Abbiamo in questi giorni un esempio lampante di come un regolamento, quello parlamentare nello specifico, possa condizionare la vita democratica di un paese. Un regolamento che consente le migliaia di emendamenti
presentati dalle opposizioni alla legge di riforma del Senato. Ora, logica
vorrebbe che un disegno di legge venisse preliminarmente votato nella sua
interezza: solo se ottenesse una maggioranza di favorevoli, o meglio di non contrari,
potrebbe proseguire il percorso in aula. Chi ha votato contro evidentemente non
ritiene quella legge “emendabile” e sarebbe logico che non partecipasse alle
votazioni successive. Diciamo però che per maggiore garantismo anche chi ha votato contro, al pari dei
non-contrari, possa presentare e votare emendamenti. Questi dovrebbero essere
tuttavia limitati ad uno per articolo, per ciascun gruppo parlamentare, con un
tetto complessivo (es. due terzi degli articoli). Ovviamente decadrebbero gli emendamenti per
articoli successivi se incoerenti con quelli precedenti già votati. Emendare non significa stravolgere.
Eviteremmo
così la sceneggiata dell’ostruzionismo, concentrando la discussione sui
contenuti.
RIFORME e
PRINCIPI
E infine, solo infine, parliamo di riforme istituzionali, non senza dedicare un po' di tempo a riflettere sui principi che dovrebbero ispirarle. Purtroppo invece
si tende a saltare rapidamente ai meccanismi tecnici
legali.
Salvatore Vassallo in “Liberiamo la politica” ha almeno il pregio di parlarne in modo
chiaro e lineare e di individuare una forma-partito come presupposto
fondamentale su cui costruire l’architettura delle riforme. Con altrettanta
chiarezza propone di abolire completamente il Senato, evitando i compromessi di cui
si sta discutendo in questi giorni.
Dalle
sue considerazioni mi pare tuttavia manchino due argomenti importanti, riguardo ai quali occorre fare chiarezza:
1.
l’evoluzione
dei poteri esecutivo e legislativo
2.
la dimensione
territoriale della rappresentanza.
1.
La confusione
di ruoli tra governo e parlamento ha raggiunto in Italia livelli preoccupanti. Sono
ormai pochissime le leggi di iniziativa parlamentare che compiono il loro iter,
mentre il governo ha una produzione elevatissima di decreti. Per converso ogni
atto governativo è sottoposto a cicli di approvazione (vedi quanto sopra
riguardo i regolamenti parlamentari) lunghissimi e accidentati. Occorre
delimitare gli ambiti in modo più netto, in particolare in campo economico, che
peraltro necessita di maggiori e continui interventi. Non comprendo perché il
destino di un governo non debba essere strettamente legato alla legge annuale
di bilancio (o come altrimenti la si voglia chiamare) e a eventuali manovre
infrannuali. Questi provvedimenti andrebbero necessariamente votati con la
fiducia. Medesimo ragionamento per i provvedimenti organizzativi riguardanti
ministeri ed enti pubblici. I governi, una volta insediati, devono essere
valutati nel loro complesso, non sui singoli provvedimenti; devono poter agire
rapidamente, senza subire i condizionamenti dei mille interessi particolari.
Diverso discorso per le leggi di sistema, anche di
natura economica come quella sul pareggio di bilancio o sui tetti alla spesa
(se esistesse), come pure quelle sulla famiglia e sui temi etici. Qui il
governo dovrebbe essere spettatore e successivamente esecutore.
2. Qualunque sia
la preferenza per un meccanismo elettorale, si dà per scontato che la
rappresentanza sia da ottenere a livello territoriale. Poteva essere
inevitabile in un tempo in cui i livelli di autonomia dei governi locali
(regioni, comuni) erano molto bassi, un'epoca in cui le relazioni
tra le persone e la circolazione delle informazioni raramente superava i
confini del proprio comune e spesso del proprio quartiere. I tempi odierni sono
molto diversi: la pubblica amministrazione locale è cresciuta moltissimo in
potere e risorse economiche, si occupa di tutto (anche troppo) ciò che riguarda
le comunità locali. Quando poi eleggiamo il parlamento finiamo per eleggere
rappresentanti, ancora una volta, del “territorio”: è normale che quando
sederanno sugli scranni più alti della repubblica si sentiranno rappresentanti
di interessi locali e non generali. Non è un caso che l’Italia non riesca a
prendere decisioni strategiche, che non si riescano a concentrare gli
interventi, che le grandi infrastrutture richiedano tempi e costi di
realizzazione multipli rispetto a quelli di altri paesi.
Ma c’è di più: non trovo che sia il massimo della
democrazia rendere molto difficile ottenere rappresentanza da parte di chi è portatore d’interessi non
territoriali, ad esempio una categoria professionale, un gruppo religioso, un
movimento d’opinione. Costoro sono fortemente penalizzati rispetto ai portatori di interessi locali, con una base di elettori molto
concentrata. E non è certo solo tramite il
passa-parola o qualche incontro in piazza che possiamo conoscere una persona:
web, televisioni, media in generale forniscono molte altre informazioni, senza
che la contiguità territoriale vi abbia un ruolo.
Non dico di eliminare completamente la
rappresentanza territoriale in parlamento, ma di eleggere con il metodo dei
collegi (a questo punto uninominali) solo una parte dei deputati (il 50% ?).
Gli altri dovrebbero essere votati in liste nazionali, contando le sole
preferenze espresse. Una delle maggiori obiezioni al sistema delle preferenze
verrebbe meno: non sarebbe affatto facile sviluppare un sistema clientelare a livello
nazionale, troppi sarebbero i “clientes”
da accontentare. Si obietta che in questo modo prevarrebbe chi ha risorse e
visibilità sui media, ma già oggi i principali leader dei partiti devono
investire notevolmente su questi aspetti: risparmierebbero i costi di
un’ipocrita campagna elettorale locale. I candidati espressi da grandi
associazioni, aree culturali, organizzazioni civili e professionali ne
avrebbero i maggiori benefici. Qualcuno dice che in questo modo consegneremmo
il parlamento alle lobby: posto che rappresenterebbero comunque una quota degli
eletti, opererebbero alla luce del sole, in modo più trasparente di quanto
accada oggi. E anche questo sarebbe un beneficio non trascurabile.
CONCLUSIONI
Ha ragione Salvatore Vassallo: liberiamo la politica, prima che sia troppo tardi. Rendiamola accessibile a chi vuole impegnarsi (e sono tanti). Ma liberiamola innanzi tutto dall'inconcludenza, dalla demagogia, dalla fede miracolistica in una riforma. Raddrizziamo le vie, partiamo dall'inizio, dalle persone. Facciamolo, senza attendere che qualcuno lo faccia per noi.