Due
lettori dell’articolo precedente (e già avere due lettori è di ottimo auspicio,
visto l’illustre precedente di chi ne aveva 25) sostengono che al tavolo della produttività
italiana sia seduto un convitato di pietra: l’innominabile moneta che ha
infranto il nostro paradiso terrestre facendoci precipitare nell’inferno della
“crisi”.
Potrei
rispondere che semplicemente non c’entra nulla (altrimenti l’avrei menzionata).
Potrei aggiungere che un tentativo per convincermi che le mie tesi siano errate
o irrilevanti potrebbero pure farlo.
Ma non credo che si accontenterebbero.
La
prima vera risposta è ovvia e desumibile dal primo grafico, basta osservarne il
tratto che va dal 1995 al 2002: la produttività italiana è rimasta stagnante,
con tendenza a diminuire, mentre quella degli altri paesi presi a confronto
aumentava.
“Ma
dopo è proprio crollata, mentre quella tedesca si è impennata”. Ora, l’entrata
in vigore dell’euro non è l’unico fattore economico degli ultimi 30 anni,
abbiamo avuto eventi quali la riunificazione tedesca, la fine dell’URSS, la
caduta della cortina di ferro, la crescita impetuosa di Cina, India e decine di
altri paesi. E un fenomeno paragonabile alla rivoluzione industriale: la
globalizzazione. E poi dicono che sia stata l’era della finanza: se non sono
eventi di economia “reale” questi …
Nel
2001-02 dopo l’attentato delle torri gemelle (giusto per ricordare l’epoca, non
sostengo che vi sia un nesso causale diretto) il settore terziario ha vissuto
un periodo di crisi molto grave, dal quale per esempio il settore informatico e
dei servizi di consulenza in Italia non si è mai davvero ripreso. E’ crollato per
diversi mesi il fatturato del turismo e vi è stato un vistoso rallentamento
nella crescita dell’economia dei servizi. Lo so che in molti sono convinti
della marginalità di questi settori in Italia, ma l’industria manifatturiera
pesava nel 2001 meno del 32% del PIL.
In
Germania sono stati anni di crisi e di pesante ristrutturazione delle imprese,
al termine dei quali, nel 2005, la produttività ha ripreso a crescere
impetuosamente. Da noi si parlava di ripresa o ripresina, di Ulivo e di Polo.
La
correlazione tra introduzione dell’Euro e la produttività italiana è già di per
se debole, quindi, e quanto meno collocabile tra i tanti fattori che possono
averla influenzata.
Vorrei
però riprendere i medesimi esempi utilizzati nello scritto per evidenziare come
sia in realtà quasi inesistente.
La
premessa ovvia è che parlando di introduzione dell’Euro suppongo che i miei due
lettori puntino il dito contro la fine della possibilità di effettuare
svalutazioni della moneta, non di altro.
Partiamo
dal negozio di alimentari, quello in competizione con il supermercato: entrambi
servono il mercato interno in valuta nazionale e quindi, a seguito di
un’ipotetica svalutazione, non vedono effetti apparenti nelle vendite e nel
costo del lavoro. Aumentano invece i costi delle merci importate, che per
effetto di ciò si riducono probabilmente in quota sul totale delle vendite.
Poiché l’Italia importa gas e olio, è ipotizzabile che i costi dell’energia e
dei trasporti aumentino. Il risultato è perciò una diminuzione, non
eccessivamente marcata probabilmente, del valore aggiunto e di conseguenza, a
parità di costo del lavoro e del capitale, della produttività. Parrebbero
gioire i fautori dell’autarchia, ma in realtà aumenta notevolmente la
probabilità che la catena dei supermercati sia acquisita da un gruppo estero,
grazie alla nostra valuta debole.
In
ogni caso, in termini di produttività, nulla cambia nella dinamica competitiva
tra il grande e il piccolo e valgono quindi tutte le considerazioni già
espresse.
Ma
i due lettori pensavano evidentemente alla piccola impresa manifatturiera.
Per
la parte di vendite in Italia valgono le considerazioni del supermercato, con
l’aggravante che l’incidenza del costo dell’energia è più alto e che ad esso si
deve sommare l’aumento del costo delle materie prime, quasi tutte
d’importazione. Per non parlare del costo di acquisire know-how da altri paesi,
voce probabilmente poco rilevante per questa piccola impresa. E l’export?
Altra
delusione in arrivo: le imprese italiane hanno continuato ad esportare, con trend
quasi identico a quello delle tedesche (i volumi erano e sono inferiori, per
questo la scala è ribassata). Nessuna correlazione con l’andamento della
produttività, divergente nelle due economie. Anzi, l’impennata dell’export
verso l’Eurozona avviene proprio in concomitanza con l’introduzione dell’Euro.
(grafico tratto da http://noisefromamerika.org/articolo/capire-questione-euro
fonti FMI, World Bank ed Eurostat )
“Dai Mantovani, non scherzare, intendevamo l’export extra UE …”
(fonte scenari economici.it)
Non
male per un paese “in crisi”.
I
miei irriducibili lettori sosterranno che tuttavia si poteva fare meglio e che
a causa dell’Euro abbiamo perso un’occasione irripetibile di crescita e
trasformazione del nostro sistema economico. Mi inducono quindi a riprendere
uno degli esempi proposti, modificandone alcuni parametri.
Immaginiamo
che di fianco a quella piccola impresa, che nel mio esempio era cresciuta
proporzionalmente come quella grande, ve ne sia un’altra, del tutto simile per
investimenti, costo del lavoro e produttività, che tuttavia opera
prevalentemente sul mercato extra-UE, con prezzi in linea o un po’ più alti di
quelli dei concorrenti. Questa azienda ha perso alcune commesse e non riesce a
sfruttare in pieno la capacità produttiva. Ecco quindi come appare il confronto
tra le due aziende in termini di produttività:
Ed
ecco che, grazie a una bella svalutazione, il nostro imprenditore può ridurre i
propri prezzi in modo significativo e acquisire nuove commesse, saturando al
massimo gli impianti e assorbendo meglio i costi fissi grazie ai nuovi volumi:
Tralasciamo
il fatto che contemporaneamente tutti i cittadini italiani siano diventati più
poveri e siano aumentati per tutti i prezzi dei beni importati, i viaggi e gli
investimenti all’estero etc. Il punto è però che questa “strategia” nazionale
non è una prerogativa permessa alla sola Italia. Può essere facilmente
praticata da tutti e soprattutto si accoppia nel tempo con la sua speculare
strategia difensiva: quella dei dazi all’importazione. Inoltre è una misura
temporanea, che provoca l’aumento dell’inflazione, vanificandone gli effetti in
pochi anni. Se praticata da molti stati provoca una generale riduzione dei
flussi commerciali internazionali.
C’è
poi un’ulteriore differenza con gli anni ’80: tra i paesi produttori ed
esportatori ci sono Cina, India, Brasile a tanti altri in cui il costo del
lavoro è molto basso, competere sul prezzo è molto più difficile. In una guerra
di prezzi quali paesi possono essere favoriti? Quelli con un grande mercato
interno e quelli che detengono la materie prime strategiche. L’Italia non è tra
questi.
E
in definitiva, che senso ha parlare di competizione “tra stati” ? La
competizione (come anche la collaborazione per fortuna) è tra le imprese e
quindi, in fondo, tra le persone.
Ma
allora perché questa tesi della sovranità monetaria riscuote consenso? Perché è
una soluzione esterna all’azienda, che ne riduce le responsabilità. Piace a
coloro (e non sono pochi in Italia) che a parole sono antistatalisti ma in
realtà chiedono che lo stato “risolva i problemi”. In modo diretto: stampando
moneta per chi non ha denaro, erogando credito se le banche trovano poco
redditizio farlo, creando posti di lavoro pubblici per contrastare la
disoccupazione e appunto svalutando la moneta se alcuni imprenditori trovano
rischioso, faticoso e difficile aumentare la produttività nelle loro aziende.
Alla
fine devo però ringraziare i miei due lettori, che in fondo portano ulteriori
argomenti alle mie tesi:
1.
la crescita
dimensionale è anche per loro necessaria per aumentare la produttività. Con una
moneta forte la crescita per acquisizioni e investimenti esteri è molto
facilitata, la crescita può quindi essere accelerata a patto di disporre delle
competenze e dei capitali necessari, difficilmente reperibili nella sola
famiglia dell’imprenditore;
2.
negli anni
’80-’90 la mancata crescita della produttività nel nostro paese può essere
stata parzialmente “coperta” proprio dalla politica di cambio debole, che ha
consentito a tante piccole aziende di illudersi che la domanda “facile” potesse
esistere all’infinito.
Ad
ogni buon conto questa è storia e si tratta ora di trovare la via d’uscita. E
non è quella di mettere la testa sotto la sabbia, chiedendo aiuto al “babbo
stato”. Non possiamo dimenticare che sono italiani anche coloro che hanno
ristrutturato e fatto crescere le imprese di successo nell’ultimo decennio, non solo quelli che faticano ad accettare la sfida della crescita di
produttività.
2 commenti:
Grazie Mario, completamente d'accordo.
Grande Mario, completamente d'accordo :-)
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