Nell'articolo
precedente “Produttività
italiana: il male oscuro” ho provato a ricostruire la notevole serie di
recenti insuccessi dell’economia italiana, collegandoli alla caratteristica
dimensionale delle sue imprese, di quelle piccole in particolare.
La
dimensione tuttavia è solo un elemento, osservabile come dato di fatto in un
quadro macro-economico e certamente correlato alla crescita, ma insufficiente a
descrivere in modo univoco il “carattere” di un’impresa. Lo sanno tutti, anche
in Italia.
Eppure
abbiamo utilizzato l’acronimo PMI (Piccole e Medie Imprese) come un diluvio,
che ha riempito le nostre leggi, i discorsi dei politici e degli economisti, i
giornali e i telegiornali, i convegni e le chiacchiere nei bar. E’ diventato il
simbolo della nostra economia, ha sostituito di fatto lo stellone come simbolo
della nostra Repubblica. Le aziende italiane “sono le PMI”, le altre sono “le
multinazionali”, anche quando hanno management e personale italianissimi. Se il
quartier generale è in Italia allora si aggiunge “tascabili”.
Le
PMI sono sempre oggetto di attenzioni, cure e protezioni (a parole) da parte
dei politici. D’altronde sono del tutto prevalenti nel censimento delle imprese
italiane: su 4,4 mil. le micro-imprese (meno di 10 dipendenti) sono addirittura 4,1 mil.; le vere e proprie piccole e medie imprese (da 11 a 249 addetti) sono poco
più di 200.000; le grandi (con più di 250 dipendenti) sono soltanto 3.400 [1].
Il
numero incredibilmente alto sul totale dovrebbe di per sé far riflettere: che
significato ha metterle tutte insieme, in un grande unico calderone?
L’identificazione
dell’Italia con queste tre lettere “PMI”, che rappresentano solo una variabile
statistica, non è una semplificazione di analisi economica: è una
banalizzazione.
Sarebbe
come se parlando di poesia ci definissimo “il popolo degli EDS (endecasillabi)”
o di turismo “il popolo dell’H2O” visto che siamo circondati da mari
e laghi e fiumi abbondano.
Per
queste ragioni credo si debba eliminare dal vocabolario corrente il termine “PMI”.
Eliminiamolo
da tutte le leggi e da tutti i discorsi politici. Lasciamolo agli economisti e
agli statistici, che non avranno difficoltà a trovare mille modi diversi per
classificarle. Un po’ alla volta il termine sparirà anche dai giornali, dai
talk show e dai bar.
Squarciato
così il velo d’ipocrisia e pressapochismo che le ricopre, potremo finalmente
guardare in faccia la realtà e forse immaginare qualche soluzione alla crisi di
crescita del nostro paese.
LE GIOVANI IMPRESE
Partiamo
dalle imprese che sono piccole per età, quelle nate da poco. Qui ci viene in
aiuto, ma fino a un certo punto, una definizione altrettanto onnipresente: le
“start-up”.
Il
termine rimanda, nell’immaginario comune, ad iniziative fortemente innovative,
spesso fantasiose, sviluppate da giovani e basate su tecnologie informatiche.
Un tipo di start-up di cui abbiamo certamente bisogno, ma che non rappresenta
la totalità delle giovani imprese né, da solo, può innescare una crescita
solida e costante. Non è un mistero che le aree del mondo in cui nascono più
giovani società di questo tipo vedano una forte presenza di investimenti in
settori quali la difesa, l’aerospaziale, la farmaceutica. E in generale è un
tessuto economico fortemente orientato a sperimentare novità, che favorisce la nascita e la crescita di nuove imprese.
Utilizzando
il parametro TEA (Total early stage
Entrepreneurial Activity Rate) la situazione critica dell’Italia appare
evidente: è fortemente distanziata dagli USA, Olanda e UK, ma anche
notevolmente al di sotto di Germania e Francia. L’indicatore, che rappresenta
la percentuale della popolazione adulta proprietaria, comproprietaria o manager
di un’impresa nascente (col.b, con meno di 3 mesi di vita) o di una nuova
impresa (col.c, da 3 a
42 mesi di vita)[2],
evidenzia inoltre le ragioni che spingono ad avviare una nuova impresa in
Italia: ragioni soprattutto “difensive”, legate all’assenza di altre
opportunità di lavoro o di reddito, e molto meno all’opportunità di migliorare
la propria condizione e il reddito, pur disponendone già in misura
soddisfacente (solo il 22,3% dei nuovi imprenditori, dato incredibilmente
basso).
La
fase della nascita di una nuova impresa è importante, è fondamentale, in tutti
i settori, sia in quelli più vicini alla ricerca, che in quelli più consolidati;
il potenziale di trasformazione nei settori “tradizionali”, nei servizi in
particolare, è notevole. Ed è nella creazione di una nuova impresa che è davvero
fondamentale il ruolo dell’imprenditore, di quel soggetto cioè che aggrega e
organizza risorse umane, tecnologiche, economiche e relazionali per creare un
nuovo “cocktail”. Il termine di imprenditore si riferisce propriamente a questi
soggetti.
Ma
far nascere nuove imprese, non solo nei settori delle nuove tecnologie, appare
… un’impresa, in Italia. Una fatica, un percorso pieno d’insidie, di costi e di
rischi, con scarse prospettive e in un ambiente economico disponibile a darti
un premio simbolico fino a quando non fatturi un Euro, ma nessuna commessa
pubblica o privata e nessun aiuto per crescere. Anche per queste ragioni i
nuovi imprenditori italiani sono più spaventati di fallire rispetto a quelli di
altri paesi:
E’
vero che qualcosa si è mosso anche nella normativa, in particolare grazie ad un
gruppo di lavoro voluto dall'ex-ministro Corrado Passera (vedi cantierecrescita.gov.it),
per provare a ridurre i vincoli all'avviamento di una nuova attività e quelli
di gestione di un eventuale fallimento.
E’ tuttavia un’opera che va ripresa e completata. Per fare un esempio: non sono un
appassionato di sussidi pubblici all'imprenditoria, che creano quasi sempre
distorsioni concorrenziali, senza risultati apprezzabili, credo però che i
pochi realmente utili si possano concentrare sulle giovani imprese.
Dove
si parla quindi di sussidi e facilitazioni sostituiamo il termine PMI con “Giovani
Imprese”, quelle fondate da non oltre 3-5 anni (dipende dai settori) e
realmente nuove, non semplicemente rinnovate nella ragione sociale.
Inoltre
non basta far nascere nuove imprese, occorre farle crescere. In Italia è questo
il passaggio più critico e più ignorato: dalla start-up si passa nel mare magnum delle PMI. Dopo 3-5 anni di
vita invece l’impresa è nella fase più importante e potenzialmente feconda
della sua vita: se è ancora attiva significa che ha superato il primo
fondamentale test di mercato, ma deve comprendere che destino la attende.
Semplificando può avere:
- un potenziale di
crescita significativo, che richiede investimenti in capitali e
management;
- un risultato
(prodotto, servizio, know-how) che genera valore, ma è in grado di
crescere soltanto aggregandosi ad altre componenti;
- un modesto
potenziale evolutivo, benché sia in grado di generare un reddito per il/i
fondatore/i.
Alle
giovani imprese serve un esame di maturità. Volontario, trasparente, affidato
alle organizzazioni imprenditoriali e manageriali, alle università, ai centri
di ricerca. L’impresa deve uscire dall'esame con un rating, spendibile per
ottenere finanziamenti, per cercare partner e investitori, o invece per avviare
un percorso di realizzo.
Chi
decide di non sottoporsi all'esame viene collocato al gradino inferiore di
rating.
Con
l’esame di maturità l’impresa esce dalla gioventù. Il fondatore può decidere se
continuare ad essere socio di capitale, manager o entrambi. Se sceglie
quest’ultima via dovrà affrontare le inevitabili difficoltà di questo doppio
ruolo ed essere sottoposto alle distinte discipline tipiche dell’una e
dell’altra figura. Ma se è un vero “imprenditore” non rimarrà troppo a lungo attaccato alla sua
creatura, troverà presto una nuova sfida sulla quale mettere a frutto le sue
migliori caratteristiche: quelle del fondatore di giovani aziende.
LE PICCOLE / GRANDI IMPRESE
Non
sono le multinazionali tascabili. Sono imprese, o più spesso semplicemente
entità legali, che pur avendo dimensioni modeste fanno parte dei grandi gruppi.
Rappresentano una modalità organizzativa, non ha senso per loro parlare di
crescita. Possono crescere o decrescere per effetto delle politiche del gruppo
al quale appartengono ed è questo nel suo insieme che crescerà o meno.
Non
si tratta soltanto di entità legali controllate direttamente o indirettamente:
sono anche società costituite da soggetti indipendenti, o comunque formalmente distinti,
ma che operano totalmente o quasi esclusivamente per un grande gruppo.
Non
servono normative particolari per queste imprese, salvo quelle che favoriscono
la trasparenza dei risultati e la distribuzioni degli utili, per evitare che l’autonomia
societaria generi effetti distorsivi.
Di
sicuro non ha senso chiamarle PMI.
LE IMPRESE di NICCHIA
Non
conta tanto la dimensione assoluta, quanto quella relativa. Nei settori di
nicchia, di modesta dimensione globale, è del tutto possibile che le posizioni
di leadership siamo occupate da poche imprese, molto specializzate, di piccole
dimensioni.
Se
la nicchia è profittevole e difendibile vi opereranno per un periodo anche
lungo, pur non potendo crescere in modo significativo. In alcuni casi la
nicchia è determinata da specifiche normative, che restringono artificialmente
il campo della concorrenza, ma si tratta di monopoli naturali o di patologie
del sistema.
Sono
PMI? Devono godere di normative speciali? E’ vero che, se per qualche ragione
dovessero chiudere, difficilmente potranno essere rimpiazzate da soggetti
diversi dai concorrenti diretti.
L’unica
attenzione speciale dovrebbe quindi essere riservata alle procedure di gestione
delle eventuali crisi di queste imprese, favorendone la continuità operativa,
indipendentemente dalle dimensioni, gli investimenti per il rilancio e
l’ingresso di una nuova compagine sociale.
LE AUTO-IMPRESE
L’ISTAT
le definisce micro-imprese e come abbiamo visto sono oltre 4 milioni, circa il
95% del totale.
Il
fatto è che le attuali definizioni del lavoro rendono estremamente opaca la
rappresentazione di quello svolto presso organizzazioni in cui lavoratore è
socio o addirittura unico proprietario: piccole imprese, nella forma di società
di persone o di capitali, anche ditte individuali.
In
questi casi la funzione dell’imprenditore si risolve nell’aggregazione e
organizzazione del proprio lavoro e dei propri mezzi, al più quelli di qualche
amico o parente, molto diversa rispetto a quella descritta parlando di giovani
imprese.
Il
caso limite è quello del lavoratore singolo, con attività rivolta al pubblico:
il piccolo artigiano o commerciante per esempio. Un caso estremamente diffuso:
circa 2,4 mil. di imprese hanno un solo addetto.
E’
evidente che la dimensione di lavoro è del tutto prevalente, la conservazione
del medesimo e le logiche difensive sono
molto simili a quelle del c.d. “lavoro dipendente”. E’ comprensibile quindi che
queste categorie si organizzino e aggreghino con forme che ricordano, nella
fase rivendicativa, quelle dei sindacati di operai e impiegati.
Anche
le norme dovrebbero tenerne conto, avvicinandosi a quelle che regolano il
lavoro, semplificando gli adempimenti e non equiparandoli a quelli riservati a
organizzazioni con un minimo di articolazione.
Delle
auto-imprese si dovrebbe quindi parlare nell’ambito della norme sul lavoro,
superando la distinzione obsoleta tra lavoro “autonomo” e “dipendente”.
LE PMI "RESTO del MONDO"
Rimangono
infine moltissime altre imprese, la cui piccola dimensione è una variabile
statistica e nulla più. Ve ne sono di ogni tipo: imprese antiche e legate a una
famiglia, a un luogo, a un prodotto, imprese nane, il cui potenziale di
crescita si è esaurito nel tempo, imprese che rinascono da una
ristrutturazione, che operano in un piccolo segmento di filiera. Imprese spesso
familiari o costituite da soci ormai anziani.
Alcune
di queste sono organizzate come quelle più grandi, solo un po’ più
semplicemente, hanno manager, spesso meno pagati rispetto a quelli dei colossi,
competono apertamente nei loro mercati, vengono cedute, fanno investimenti,
innovano.
All’estremo
opposto si trovano quelle imprese organizzate in base ai rapporti di fiducia
stabiliti dalla proprietà, che ne effettua direttamente la gestione; talvolta
il loro successo dipende da relazioni specifiche con enti pubblici o privati,
da concessioni o da situazioni che di fatto limitano la concorrenza; in
generale vivono quanto i loro fondatori (o al massimo i primi eredi) e tendono
più a conservare che a innovare.
Imprese
redditizie o quasi fallite, stabili o perennemente in bilico, senza debiti o
troppo indebitate: ve ne sono di ogni tipo e sono la concreta rappresentazione
del mercato, in una società libera.
Hanno
necessità di norme e azioni speciali? A mio parere, no. Devono affrontare la
concorrenza come tutte le altre, anche più grandi, con le stesse regole. Logico
che prevalgano le grandi, dove servono capitali, investimenti, economie di
scala; prevarranno le piccole dopo la crisi di una grande impresa, nei mercati
più frammentati, nei casi in cui singole persone eccellenti possono fare la
differenza.
Non
servono leggi specifiche, oltre a quelle che regolano la concorrenza. Non c’è
un mix necessariamente migliore tra grandi e piccole e comunque è il mercato
che lo determina.
RIPRENDERE LA CRESCITA
La
crescita non dipende dai “modelli” d’impresa, né vanno in crisi “i modelli”.
Vanno
in crisi le singole imprese e, se le regole di mercato non funzionano, non
vengono sostituite da altre imprese più nuove, o più efficienti, o più grandi,
o un mix di queste caratteristiche.
Per
riprendere la crescita occorre quindi agire lungo alcune direttrici:
- delegificare, togliere lo strato di polvere e di norme che hanno cercato di rappresentare l’Italia come “la patria delle PMI”, nonché di quelle che proteggono monopoli e oligopoli in molti settori, senza reale utilità per la comunità;
- destinare risorse umane e finanziarie alle sole fasi di nascita e di crescita delle imprese realmente nuove, orientandole alla crescita o al consolidamento, secondo il potenziale, minimizzando i costi dell’insuccesso;
- avviare un piano consistente di investimenti pubblici nelle infrastrutture e in alcuni settori strategici (spazio, difesa), con una logica di ritorno economico nel lungo periodo e di creazione di filiere d’eccellenza, fatte d’imprese giovani e innovative;
- liberare dal quasi-monopolio pubblico alcuni grandi settori strategici, come ad esempio la scuola e la sanità, consentendo la nascita di imprese competitive e innovative;
- difendere efficacemente le poche imprese “non sostituibili” in fase di crisi, separando nettamente gli interessi comuni da quelli della proprietà e del management;
- ricondurre le norme relative alle auto-imprese nell'ambito della normativa del lavoro; rendere questa dimensione normativamente prevalente per le micro-imprese;
- introdurre sistemi di politiche attive (sussidi alla disoccupazione condizionati alla riqualificazione e alla ricerca di nuove opportunità) disegnati espressamente per le auto-imprese e per le micro-imprese.
Sette direttrici che implicano altrettanti
cambiamenti epocali, un mix in grado di provocare uno shock rapido e straordinariamente
intenso nell’economia italiana.
Ma
la crescita italiana non ripartirà sulla sola base di nuove leggi, o anche solo
di meno leggi. Ripartirà dal coraggio, dalla consapevolezza di operare in un
mercato domestico di dimensione europea e in un mercato estero globale; dalla
conoscenza e dalla specializzazione, dalla distinzione tra management e
investitori, dall’utilizzo intelligente degli strumenti finanziari, dalla
crescita di cultura tecnica, aziendale, creativa e organizzativa.
Ripartirà
da una nuova cultura d’impresa: basata su impegno e passione, come nella nostra
tradizione migliore, ma anche su know-how, coraggio e visione globale, virtù
non adeguatamente valorizzate nel nostro paese.
Ripartirà
solo accettando una forte discontinuità con il passato, economico e politico,
non illudendosi che finisca la “crisi”; quella che chiamiamo crisi è soltanto
il risveglio alla realtà.
Ripartirà
da noi: da quelli che otto anni fa si chiedevano come quest’Italia potesse
sopravvivere a se stessa, da quelli che da allora hanno compreso il cambiamento
irreversibile e da quelli che, con fatica e coraggio, si accingono ora ad abbandonare le illusioni
e a diffidare delle scorciatoie.
4 commenti:
Sulle -- Giovani Imprese --
Interessante, ho messo su Facebook Stem Sel, condivido l'analisi sulle startup, qualche dubbio ce l'ho sul rating. Sono diffidente nei confronti dei "parametri oggettivi di valutazione" (rank). Lo sono nei confronti del ranking accademico, e pure del ranking aziendale soprattutto se applicato alle startup.
Chi ranka una startup e soprattutto con quali parametri? Puo' bastare la classica redditivita' lorda che si usa per rankare le aziende gia' un po' mature? No. E la "valorizzazione" dell'azienda? Anche questo e' insufficiente o "loosely typed". Come rankare una startup e' oggetto di studio da parte di eminenti colleghi ricercatori universitari e no e aziende di rank nazionali ed internazionali. Io non saprei ancora dare una risposta.
Quanto al fatto che il punto non sia tanto favorire la nascita delle startup ma favorirne la crescita riducendo la mortalita', sono assolutamente d'accordo.
Il punto e' come. Certamente sarebbe da adottare una politica di forte agevolazione fiscale. Che serve poco o niente ad una startup appena nata, ma serve quando inizia a fatturare e dover reinvestire per crescere. A quel punto serve una agevolazione fiscale! UK ha una imposta sul reddito di impresa delle startup pari al 20% e in caso di vendita di prodotti con brevetti, il 10%! Siamo lontani anni luce. Poi servirebbero azioni per favorire i piani di sviluppo, dalla finanza agevolata ad agevolazioni sul work for equity, in modo da fare entrare manager piu' facilmente e piu' convenientemente per loro. Sono convinto che la principale causa di mortalita' delle startup sia nella debolezza del loro piano di mercato e di sviluppo in generale, perche' la base di partenza ha poco o niente capacita' manageriali. Se si ha un buon piano di sviluppo la finanza poi si trova, in Italia o altrove. Gli investitori non sono stupidi, ma nemmeno benefattori.
Pierluigi Reschiglian
Presidente/AD
Stem Sel Srl, Bologna
ps: sono anche io un baby boomer, nato nel 60!
Molte grazie per il commento, mi fa piacere che un "addetto ai lavori" ne condivida in buona parte i contenuti. Quanto al rating io sono sempre favorevole a misurare, se ciò avviene in modo trasparente. La trasparenza include anche la pubblicazione dei componenti della giuria e la dichiarazione dei criteri utilizzati. Un rating non è un giudizio inappellabile, ma un parere, sempre parziale e "di parte". Meglio di niente però.
Con Manageritalia stiamo sviluppando una proposta di legge che favorisca il reinvestimento da parte dei manager delle indennità in uscita in capitale di start-up, concordando sul fatto che la debolezza nasca proprio dalla carenza di strumenti manageriali. Approfondiamo presto !
Per fortuna o purtroppo l'offerta di manager oggi è piuttosto alta, e ne ho conosciuti di diversi che penserebbero ad una "second life" come imprenditori di startup.
Ottima idea quindi quella di favorire un reinvestimento delle indennita' di uscita dei manager in VC per startup in crescita, anche se gia' uscite dal periodo limitato di "startup innovative", durante il quale gli investitori di VC, sia come persone fisiche che giuridiche, godono gia' di agevolazioni.
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