Tasso
di disoccupazione: 13,2%. Tasso di occupazione: 55,6%.
Con
una battuta amara, pare che in Italia sia proprio scomparso il lavoro, senza
distinzioni.
Nonostante
l’innegabile impegno degli ultimi governi il lavoro non si crea per decreto. E nemmeno
con scritti come questo.
Il
costo, la legislazione e la contrattazione riguardanti il lavoro sono tuttavia
fattori rilevanti, unitamente all'organizzazione e alla qualificazione, per
determinarne la produttività; fare perciò chiarezza, mandare in pensione
definizioni obsolete (su quelle non è intervenuta la Fornero…) e proporre
modelli coerenti con la crescita può contribuire ad eliminare vincoli,
complessità e oneri ingiustificati. Evitando anche di creare dannose
contrapposizioni tra categorie di cittadini la cui coesione sarebbe preziosa in
un momento così difficile.
La
provocazione del titolo trae origine da un’osservazione approfondita
dell’organizzazione di aziende e settori: l’articolazione interna, la collaborazione
tra entità legali, l’organizzazione di filiera sono divenute talmente
articolate da rendere poco rilevante la classificazione tra “dipendenti”
e “autonomi”.
Davvero
possiamo considerare “dipendente” un direttore generale e “autonomo” un giovane
avvocato di un grande Studio? Un project manager rispetto ad un agente
monomandatario? Un consulente informatico rispetto a un consulente tributario?
Le
aziende moderne si organizzano consentendo vari gradi di autonomia alle diverse
componenti organizzative, misurate in base a obiettivi, in un quadro di regole
interne dinamico e in evoluzione costante, integrando e scorporando
continuamente rami e intere aziende, settori di business, organizzazioni
territoriali.
Lo
stesso accade in tutti i settori di servizi sorti più recentemente e pertanto
non condizionati da modelli professionali storici; ma anche all’interno di
questi ultimi (avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, medici,
dentisti etc) l’evoluzione verso forme organizzative più ampie, con gerarchie e
suddivisione del lavoro professionale ben definite, è senza dubbio in atto, da
tempo. Il lavoro si svolge in un continuum
in cui il grado di dipendenza gerarchica è sempre meno riconoscibile e in ogni
caso meno rilevante.
Il
criterio più fondamentale è probabilmente quello della contrattazione e
fissazione della remunerazione. Ma quando una parte rilevante di essa è
variabile, come lo è il tempo impiegato (part-time, a chiamata, stagionale, a
progetto) è davvero possibile distinguerla da quella contrattata con un
professionista? E quando quest’ultimo ha l’evidente necessità di entrare in
relazione con l’organizzazione dell’azienda, condividendone spazi e regole, ma
anche obiettivi e risultati, che grado di autonomia ha? E soprattutto quanto
può essere autonomo un professionista che lavora in una grande struttura in cui
un collega vende i servizi, un altro seleziona i professionisti e assegna gli
incarichi, in cui esistono spazi e procedure comuni?
Forse
la prova dell’avvenuta definitiva ibridazione è la cosiddetta “Partita IVA”.
Già essere costretti a definire una persona, spesso dotata di professionalità
specifica ed evoluta, con il riferimento a un numero di matricola è di una
tristezza infinita, dà l’idea di una massa senza nome. Un operaio non è una
“matricola” anche se negli archivi aziendali tale numero esiste. Un
commerciante ha un codice di Partita IVA, ma viene definito in base alle
merceologie che tratta.
La
Partita IVA lavora in un limbo: spesso esattamente come un dipendente, ma non
può dirlo. Spesso ha una professionalità accertata, ma nessuno lo rappresenta
nei luoghi che contano, non riesce o non vuole darsi un’identità precisa. Altri
invece lavorano saltuariamente “a Partita IVA”.
Alla
fine ciò che distingue realmente le diverse figure autonome e dipendenti sono
le norme fiscali e contributive. E’ un paradosso: in partenza, forse, erano determinate in base al lavoro svolto, ora è il contrario. Addirittura
l’INPS si arroga il diritto di decidere che tipo di lavoro tu stia realmente
svolgendo, in base alle sue definizioni e casistiche, con ampia autonomia
decisionale e onere di dimostrare il contrario a carico del lavoratore.
Nella
pratica i dipendenti sono coloro ai quali l’azienda pratica ritenute fiscali e
previdenziali alla fonte e conguagli a fine anno, gli autonomi quelli che
invece dichiarano i redditi, pagano di conseguenza anticipi e saldi e sono perciò
più soggetti ad accertamenti, anche presuntivi.
So
bene che molti consulenti del lavoro e avvocati proveranno orrore alla lettura
di queste righe per “tanta superficialità e tale misconoscimento del diritto
formatosi in decenni di leggi, casistiche e sentenze”. E’ proprio questo il
problema: l’organizzazione del lavoro non ne ha necessità, e anzi è penalizzata
da tale complessità.
Questa
situazione confusa e debolmente motivata fa sì infatti che ad ogni riforma
qualche categoria sia più colpita di altre, che si creino distorsioni, che il
passaggio da una categoria all'altra sia complesso, fonte d’incertezza, spesso
penalizzante.
Il
mercato del lavoro non richiede questa complessa e confusa articolazione,
semplicemente la subisce.
Il lavoro organizzato
Proviamo
quindi a dimenticare per un attimo le definizioni, le prassi e le consuetudini
attuali, che portano alla distinzione tra lavoro autonomo e dipendente, e
concentriamoci sulla sostanza contrattuale. Nella maggior parte dei casi il contratto si inscrive in una realtà organizzata, in cui quel lavoro specifico
ha un ruolo, regole, obiettivi, modalità, requisiti di competenza, risultati da
raggiungere, tempo da dedicare, il cui significato deriva dall'organizzazione
(a sua volta articolata in una o più realtà societarie, unità produttive,
divisioni, uffici etc). Il contratto è quindi sottoscritto tra una persona fisica
e un rappresentante dell’organizzazione.
Il
contratto contiene norme relative all'esercizio dell’attività, alla sua
cessazione, alla remunerazione (fissa e/o variabile), al welfare, a garanzie,
assicurazioni, reciproci impegni.
Il
fatto che esistano contratti-tipo (tipicamente contratti collettivi nazionali)
ha due grandi vantaggi: 1) semplifica la contrattazione in fase di assunzione e cessazione 2) consente di organizzare servizi di welfare basati sui numeri di una
collettività e su concetti di mutualità, ben difficilmente perseguibili con
altri strumenti. La possibilità di organizzarsi sulla base di caratteristiche
professionali, e di autogestire quindi i propri fondi contrattuali, è una delle
fondamentali libertà associative di un cittadino.
In
questa casistica rientrano un numero elevatissimo di attività, sicuramente
quelle di “lavoro dipendente” ma anche molte definite “autonome”. Vi sono
comprese infatti anche quelle svolte per organizzazioni che erogano servizi ad
altre organizzazioni, come ad esempio gli studi professionali. Poco conta anche
il fatto che il lavoratore operi per una o più organizzazioni: in assenza di
clausole di esclusiva sarà sua cura rendere compatibili le diverse attività e i
diversi contratti potrebbero essere del tutto simili tra loro.
Il
presupposto di questa forma contrattuale è la distinzione tra il lavoratore e
chi rappresenta l’organizzazione.
Il lavoro auto-organizzato
Le
attuali definizioni del lavoro rendono estremamente opaca la rappresentazione
di quello svolto presso organizzazioni di cui lavoratore è socio o addirittura
unico proprietario: piccole imprese, nella forma di società di persone o di
capitali, ditte individuali.
Qui
prevale una definizione di “imprenditore” che non rende ragione alle reali leve
di generazione del valore, rappresentate dal lavoro (che comprende anche il
know-how, le competenze e le relazioni) e dal capitale investito (che comprende
anche la capacità di ottenere credito). Il successo dell’impresa dipende dal
mix delle due componenti, ma non v’è dubbio che siano mosse da logiche
distinte, che nel tempo possano prevalere l’una o l’altra e che non
necessariamente debbano entrambe rimanere nelle mani della stessa persona.
In
assenza di contraddittorio tra il lavoratore e il rappresentante
dell’organizzazione, che sono in questo caso la stessa persona o strettamente
legati da vincoli di parentela, diventa difficile determinare in modo
oggettivo, o comunque di mercato, il ruolo e la retribuzione. È invece più
facile stimare, anche convenzionalmente la redditività del capitale investito:
essa sarà infatti differente per ogni azienda, ma la differenza dipenderà
proprio dalle componenti di lavoro (incluse quindi le competenze e le
relazioni) dell’imprenditore. Dalla sua remunerazione totale sarà quindi
sufficiente detrarre quella della componente derivante dal capitale per
determinare quella del lavoro prestato. La componente di capitale potrà essere
calcolata applicando tassi di rendimento generali o di settore, o legandola
all’andamento di indici rappresentativi dell’attività svolta. La fiscalità sarà
determinata dalle regole generali di tassazione dei redditi da capitale.
Il
caso limite è infine quello del lavoratore singolo, con attività rivolta al
pubblico: il piccolo artigiano o commerciante per esempio. In questo caso che
senso avrebbe formalizzare un contratto, stante l’identificazione dell’impresa
con la persona? Anche senza contratto tuttavia si può applicare il medesimo
principio e suddividere il reddito d’impresa nelle due componenti di capitale e
di lavoro.
Fisco e previdenza obbligatoria
Dal
lato fiscale la semplificazione sarebbe notevole: una componente significativa
delle remunerazioni sarebbe infatti predeterminata a livello annuale / mensile,
proprio come oggi avviene per i “dipendenti”. Quella variabile, che
includerebbe i dividendi distribuiti, al netto della componente di
remunerazione del capitale, sarebbe comunque soggetta alle medesime aliquote e
regole, fatta salva la diversa e meno regolare temporalità. Nell’arco della
storia lavorativa di una persona la componente fissa / stimata risulterebbe
maggiormente determinabile, anche per il lavoro professionale e commerciale,
più soggetto alla variabilità delle remunerazioni.
Ma
la vera rivoluzione dovrebbe avvenire nella previdenza, distinguendo quella
obbligatoria (l’attuale INPS per intenderci) da quella contrattuale o
individuale.
La
mia idea è che la previdenza obbligatoria debba unicamente garantire la
pensione minima di vecchiaia, d’importo sufficiente al proprio mantenimento,
per evitare che persone in età avanzata, e quindi con forti limiti
nell'attività lavorativa, debbano ricorrere a sussidi statali per sopravvivere.
L’accantonamento stimato come necessario dovrebbe essere accumulato, in
continuità di lavoro, nell'arco di 25-30 anni, in modo da consentire comunque,
anche in presenza di periodi di disoccupazione o sotto-occupazione, di
raggiungere, in un periodo più lungo, l’importo necessario ad erogare la futura
pensione.
E’
evidente che tale impostazione comporterebbe nella fase di iniziale
applicazione un forte deficit di cassa per l’Ente previdenziale, causato dallo
squilibrio tra entrate, di minore entità, e le uscite, riferite ai contributi
molto più elevati già versati e non completamente accantonati a riserva.
Deficit che sarebbe da coprire tramite interventi fiscali, resi sostenibili
tuttavia dalla diminuzione dei contributi previdenziali, e dal maggiore indebitamento
dell’Ente.
Scomparirebbero
così le “pensioni d’oro”, ma anche i “contributi d’oro” che oggi alcune
categorie pagano e altre per anni non hanno pagato. Verrebbe meno anche la
necessità di integrare le pensioni minime (misura spesso necessaria ma
fortemente ingiusta nei confronti di chi ha regolarmente versato i contributi
per anni) e di erogare pensioni di reversibilità. L’accumulo per il coniuge
privo di redditi avverrebbe infatti con le medesime modalità e principi, a
carico del coniuge occupato.
I
contratti collettivi e gli accordi di categoria consentirebbero, con maggiore
libertà e rilevanza di quanto oggi accada, di sviluppare forme di welfare
collettive più flessibili e maggiormente tarate sulle caratteristiche dei
lavoratori, senza abdicare al principio della mutualità e alla forza della
collettività.
Regole
fiscali e previdenziali obbligatorie che varrebbero per tutti allo stesso modo,
con le stesse aliquote e modalità, facendo sparire nel tempo gestioni separate
e gestioni obbligatorie settoriali, le cui differenziazioni causano spesso la
“convenienza” di una forma contrattuale rispetto ad un’altra, pur con attività
e mansioni similari.
La cessazione del rapporto di lavoro
Gli
argomenti legati alla cessazione del rapporto di lavoro (termine, preavviso,
indennità, sussidi) sono normalmente considerati tipici del rapporto di lavoro
“dipendente”. Fermo restando quanto detto prima sull'impossibilità di misurare
il grado di “dipendenza”, in tutte le attività svolte in modo continuativo, non
occasionale, si pongono gli stessi problemi. Quanto il contratto è “a termine”
la sua remunerazione può prevedere già implicitamente una remunerazione del
periodo di assenza di reddito, e anche nelle attività professionali considerate
“autonome” è del tutto frequente che vi sia un preavviso per la cessazione
dell’attività e un’indennità sostitutiva in caso di richiesta di cessazione
immediata. Le situazioni sono molto diverse quando si parla di sussidi di
disoccupazione, di cassa integrazione guadagni, di incentivi all'esodo.
Il
principio generale dovrebbe essere il seguente: la cessazione di un rapporto di
lavoro comporta un onere legato alla cessazione della remunerazione. Tale onere
può essere posto a carico a) del lavoratore b) del datore di lavoro / cliente
c) della collettività.
Il
modello più efficace prevede una suddivisione degli oneri:
1)
una quota fissa, di importo certo, a carico del datore di lavoro, che dovrebbe
esistere anche nel caso in cui il contratto sia esclusivo e a termine e il lavoratore
non trovi immediatamente un’altra occupazione;
2)
una quota a carico della collettività, prevalentemente costituita da servizi di
riqualificazione e ricollocamento per i lavoratori privi di occupazione, ma
anche di sussidio diretto, condizionato alla ricerca di occupazione e
accettazione delle proposte ricevute;
3)
una quota indeterminata, sostanzialmente rappresentata da quanto non coperto
dalle due precedenti, che rimarrebbe comunque a carico del lavoratore.
Accordi
tra le parti sociali potrebbero introdurre elementi di mutualità e di sinergia
tra le componenti a carico dell’azienda (1) e del lavoratore (3).
A
determinate condizioni, soggette a verifica, i sussidi sarebbero erogabili
anche a soggetti con rapporti di lavoro definiti come auto-organizzati, nel
caso in cui l’attività non generasse alcuna remunerazione o comunque non fosse
superiore alla componente convenzionale di remunerazione del capitale.
Conclusioni
Scenari
futuribili? Certamente, ma almeno in grado di orientare una necessaria e
urgente evoluzione del lavoro, ponendo fine alla “guerra” tra autonomi e
dipendenti, realizzando vera equità e restituendo dignità professionale alle
“partite IVA”. Anche i benefici in termini di semplificazione e controllo del
gettito fiscale e previdenziale, di stabilità e flessibilità del sistema
previdenziale sarebbero notevoli.
Iniziamo
a parlarne e a muovere gradualmente qualche passo in una nuova direzione.
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Con questo articolo si conclude una serie di tre scritti, che partono da un'analisi delle debolezze italiane e propongono soluzioni di sviluppo per l'aziende e di innovazione nel lavoro.
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