
Con
l'occhio dell'attualità l'onda sembra il preludio inarrestabile al ritorno dei
vecchi stati europei indipendenti, definiti "sovrani" nel gergo
ottocentesco di una restaurazione che ama definirsi "di popolo".
Oltre
alla Brexit e accanto ai governi apertamente ostili all'Unione portano vento
alle vele sovraniste anche la presidenza francese, tradizionalmente e
fieramente nazionalista e la leadership tedesca, incapace di rendere universale
e dissimulare il carattere nazional-culturale delle proprie virtù.
Non
tutte le onde vincenti hanno però la stessa durata e persistenza, occorre
quindi dimenticare un po' l'attualità e comprendere come e perché si sono
formate.
In
questi giorni si moltiplicano le analisi, anche utili, degli errori commessi
dai sostenitori di un'Europa unita, solidale, integrata, aperta ai movimenti di
persone, capitali, merci e servizi. Le tragedie che hanno devastato l'Europa
nella prima metà del secolo scorso sono ormai nei libri di storia e gli eventi
che vi hanno condotto sono considerati troppo lontani per essere ripetibili.
Sono
analisi motivate e spesso corrette, ma costruite come se l’europeismo dovesse
sfidare un modello alternativo. L'onda sovranista non invece è sostenuta da
motivazioni profonde, non ha un progetto di futuro, non dà vita un nuovo
modello sociale ed economico in gestazione.
Non
è quindi impensabile che il sovranismo sia l'ultimo colpo di coda di un
modello decrepito di stato nazionale, reso anacronistico dai profondi
cambiamenti intervenuti nei secoli da quando è stato concepito.
La
globalizzazione è certamente frutto di una scelta storica, prevalentemente
avviata da leader economici e finanziari americani, ma è alimentata e abilitata
da strumenti di comunicazione e di trasporto che hanno mutato in modo
irreversibile la geografia del globo. Non è un’idea imposta con la forza, è
cresciuta con l’adesione convinta e interessata di milioni persone, anche nel
nostro continente. Idee e conoscenze non si spostano più soltanto con mezzi fisici
(persone e libri) ed è sempre più difficile bloccarne la diffusione. La
trasformazione avvenuta nel corso della mia generazione è molto profonda:
l'orizzonte di conoscenza e di mobilità è straordinariamente più ampio per
miliardi di persone, limitate fino a 40 anni fa dall'assenza di strumenti e
infrastrutture veloci. E non dobbiamo dimenticare che la dimensione nazionale
già ha rappresentato, almeno in Europa, un movimento aggregativo, fortemente
accelerato nella seconda metà dell'800, di territori precedentemente
amministrati in modo separato, che tuttora conservano identità distinte, mai
abbandonate.
Con
gli occhi della storia, della scienza, dell’economia e della geografia gli
stati europei, e in particolare quelli maggiori, hanno una dimensione media
difficilmente sostenibile in prospettiva. Possono fornire solo risposte
mediocri alle grandi domande dei nostri tempi: la trasformazione del lavoro e
la localizzazione più volatile dei centri di sviluppo economico si manifestano
su scala globale, i flussi di scambio delle merci e di circolazione dei
capitali richiedono sistemi regolatori di ampia dimensione, la conoscenza e le
informazioni, vere e false, circolano con estrema facilità attraverso reti
globalmente integrate. Lo stato nazionale può aspirare a essere un baluardo,
insufficiente e temporaneo, contro fenomeni sgraditi e difficili da gestire (la
migrazione di poveri), ma non possiede dimensioni e mezzi sufficienti per'incidere
sui problemi profondi. Uno sceriffo di Nottingham. Chi parla di Europa e di globalizzazione
come fenomeni lontani vuole nascondere la loro presenza quotidiana, pervasiva e
difficilmente reversibile. I beni e i servizi che utilizziamo, la struttura
delle nostre imprese, grandi e piccole, la cultura, l'uso del tempo libero non
hanno confini nazionali e sono fortemente europei, anche quando non ce ne accorgiamo.
E
chi vuole ripristinare la sovranità statale non si rende conto che anche
l'esercizio dei poteri fiscali è ormai messo in crisi da un numero crescente di
servizi non territoriali?
Certo,
esiste sempre la possibilità di una scelta d'isolamento, che farebbe
sprofondare il nostro, come gli altri paesi europei, in un limbo oggi riservato
ai pochissimi paesi che storicamente vi sono rimasti intrappolati.
Sarebbe
errato e anche inutile cercare di riconoscere caratteri strutturali ed epocali
alle logiche del sovranismo. Questo nasce come una sorta di
"anticorpo" e non a caso incorpora toni e posizionamento tipicamente
“reazionari”, spesso descritti come tipici della destra (concetto più ampio e
meno preciso, utile oggi soltanto, come la sinistra, a far sventolare bandiere
in piazza). E’ accaduto spesso nella storia che un cambiamento profondo e
continuativo abbia a un certo punto rallentato, scoprendo debolezze e
deviazioni rispetto agli obiettivi fondamentali: quello è il momento in cui
prendono il sopravvento gli anticorpi, che cercano di riportare a un ipotetico
stato precedente il corpo sociale. Ovviamente è impossibile, ma il corso degli
eventi futuri può esserne temporaneamente modificato, con effetti sulle persone
e sui territori.
Il
sovranismo può essere uno di questi colpi di coda della storia, dopo il quale i
suoi argomenti finiranno in archivio. Ma l'esito non è determinabile, né
scontato.
I
punti deboli del globalismo e del progressismo
Il
processo di globalizzazione ha raggiunto risultati molto ampi in campo
economico, finanziario e culturale, ma non altrettanto in campo sociale, anche
per l’assenza di un modello di governance globale. Occorre quindi che il
conflitto, informale e strisciante, tra le entità già globalizzate e sempre
meno territoriali (aziende, ONG, social network movimenti culturali) e i
baluardi del potere tradizionale (gli stati) trovi un punto d'equilibrio. La
chiave sta nell'individuare una dimensione sostenibile, nella quale attivare
meccanismi di controllo e protezione, quando necessario, senza generare effetti
devastanti sulla vita quotidiana di milioni di persone. USA e Cina sembrano
avere già identificato questa prospettiva e si organizzano, con differenze
anche profonde di premesse, strumenti e gradi di libertà, per rendere
sostenibili e autosufficienti i rispettivi sistemi. La Russia ha la medesima
velleità, ma è molto più limitata e debole nelle variabili fondamentali.
Per
il resto del mondo la scelta è tra cercare uno spazio all'interno di uno dei
due / tre sistemi globali o costruire un'entità in grado di replicarne
meccanismi e dimensioni, per poter affrontare
in modo meno squilibrato gli altri grandi attori globali, statali e non.
Potremmo
definire questo modello "globalizzazione macro-regionale", con
tutti i caratteri della globalizzazione all'interno delle macro-regioni e
flussi consistenti, ma più precisamente regolati e controllati, tra le
macro-regioni.
Non
c'è alcun futuro per gli stati di media taglia, sia europei che non europei.
Paradossalmente sono avvantaggiati gli stati più piccoli (es. Svizzera,
Lussemburgo, Norvegia) più omogenei, meno popolati, da più tempo abituati a
occupare nicchie sostenibili. I sovranisti italiani, francesi, tedeschi,
inglesi, polacchi, ungheresi, specialmente se riuscissero a bloccare i processi
d'integrazione e a recuperare la "sovranità" della moneta e degli
accordi commerciali, si scoprirebbero molto piccoli sulla scena mondiale (lo
sta dimostrando in questi giorni la Turchia). Se cercassero di sviluppare
politiche di nicchia si vedrebbero rubare la scena dalle loro stesse regioni
interne, quelle forti in grado di competere e quelli deboli che rischierebbero
di sprofondare. Ciò che unisce i sovranisti dei diversi paesi europei è la
lotta contro il comune nemico, l'Unione Europea, ma se raggiungessero
l'obiettivo o ne conquistassero le leve esploderebbero immediatamente tutte le
differenze e i contrasti nazionalisti.
Purtroppo
l'Unione Europea non è ancora avviata con decisione verso un ruolo definito in
questo scenario: benché sia il caso più avanzato e indipendente d'aggregazione
(il mondo arabo è molto più diviso, nelle Americhe il ruolo degli USA è
preponderante, nel sud est asiatico lo è quello della Cina, mentre India e
Australia non mostrano capacità aggregativa e in Africa non emergono leadership
unificanti) ha decisamente frenato il processo di unificazione proprio nel
momento più critico.
Questo
rallentamento è la maggiore debolezza, che consente ai sovranisti d'attaccare
strutture come l'Euro o le regole di bilancio. Hanno avuto anni per preparare
il terreno, senza dover inseguire novità derivanti da maggiore integrazione in
ambiti anche diversi da quello economico (che, va ricordato, è normalmente più
fonte di preoccupazioni che di gioie per chi va a votare). Se in breve tempo il
campo delle proposte di sviluppo dell'Unione si popolasse di nuove idee nella
Difesa, nello Sport, nell'Educazione, nella realizzazione d'infrastrutture, il
campo oggi dominato dai sovranisti tenderebbe a disperdersi tra favorevoli e
contrari, nei diversi ambiti. Rimarrebbero i soliti duri e puri, ma solo con
quelli nessuno vince le elezioni.
Il
secondo punto di debolezza in cui s'inseriscono i partiti sovranisti è legato
al disprezzo verso gli aspetti sociali della tradizione, portato come
una bandiera dai progressisti. Un'idea tutt'altro che scontata di progresso
vede marciare insieme l'evoluzione della società con quella della conoscenza,
della tecnica e dell'economia. Ora è difficile negarne i legami e rifiutarsi
d'individuare alcune direzioni evolutive delle civiltà umane, ma una
semplificazione eccessiva, alimentata dal sottile desiderio di sciogliere vincoli
morali e sociali un po' faticosi, ha portato grande parte della cultura sia di
sinistra che liberale a propugnare l'abbandono di modelli sociali fortemente
radicati e storicizzati. L'idea che la religione sia solo una forma
superstiziosa e un sistema di potere, che la sessualità sia del tutto avulsa
dalle motivazioni riproduttive, che i legami familiari si possano indebolire
senza danno, ha molti sostenitori ma anche altrettanti detrattori. E sarebbe
sbagliato credere che i primi rappresentino il futuro e i secondi il passato:
si tratta di un vero e profondo conflitto tra visioni del mondo, per ora molto
interno alla civiltà occidentale, che potrà trovare in futuro nuove sintesi ma
che oggi, e io credo ancora per lungo tempo, dobbiamo abituarci a gestire.
Anche
in questo caso la politica dei sovranisti-restauratori è senza prospettiva e il
ritorno al passato è impossibile: le loro stesse schiere finirebbero per
dividersi. Ma è anche controproducente appiattirsi su battaglie di
"diritti", che da entrambe le parti delle barricate morali vengono
invocati in coerenza con visioni del mondo inconciliabili. La politica è l'arte
del possibile e ha il compito di far convivere nel presente persone, culture,
fedi che si evolvono con tempi molto più dilatati e non controllabili.
Sulla
proposta di un modello di reale convivenza, che non presupponga la
sottomissione di una visione del mondo all'altra e riconosca allo stato un
ruolo di arbitro e garante dei diritti degli uni e degli altri, può giocarsi
una partita in grado di scardinare gli argomenti dei sovranisti-tradizionalisti.
Nel
medesimo ambito si sviluppano le discussioni sull'immigrazione, non a caso
fortemente amplificate rispetto alla loro reale portata. Dipingere come
inevitabile una società sempre più meticcia è realistico e confermato dalla
storia, specialmente di un paese mediterraneo come l'Italia, ma non esclude la
possibilità di gestire il fenomeno e di cercare una reale integrazione, pur
nelle differenze. Non è una giustificazione, ma l'emergere dell'anticorpo
razzista è un fenomeno riscontrabile con regolarità matematica, in assenza di
una politica d’integrazione.
Un
terzo punto di debolezza è legato al rapporto cittadino-stato, sul quale
non si è fatta abbastanza chiarezza. La sinistra ha appreso, nella sua parte
maggioritaria, la lezione di una durissima sconfitta storica, evidenziata dal
crollo degli stati social-comunisti e dell'economia pianificata. Si è trovata
perciò necessariamente vicina ai liberali, che da sempre hanno sostenuto la
necessità di limitare i poteri dello stato. Mentre l'evoluzione globale ha via
via ridotto gli ambiti statali d'influenza, né i politici liberali né quelli di
sinistra hanno saputo cavalcare l'onda, ridefinendo ambiti e struttura dello
stato con l'ausilio della società organizzata, come se il potere
"sovrano" della politica parlamentare / governativa e dello stato
fosse ancora intatto.
Non
hanno saputo dire chiaramente che le domande di prosperità, sviluppo economico,
lavoro non dipendono che in piccola parte dallo stato e dalle decisioni dei
politici, che possono invece interferire negativamente in modo pesante, ma
nemmeno trovano risposte automatiche con la generica pratica di mercato e
concorrenza. Non hanno avuto il coraggio di chiamare una platea più ampia di
persone e organizzazioni a farsi carico della solidarietà con i più deboli,
lasciando così che si coltivasse la pericolosa illusione di uno stato
indefinitamente sociale. Entrambe le culture politiche hanno peccati originali
dai quali difficilmente riescono a liberarsi: per la sinistra è il ruolo
sociale preponderante dello stato, per i liberali il ruolo taumaturgico del
mercato. Nessuna delle due si rassegna ad abbandonare questi modelli per
formulare soluzioni in cui il ruolo sociale spetta alla società organizzata.
I
cittadini continuano perciò a chiedere allo stato risultati che non è in grado
di dare. Il tentativo di allentare i vincoli gradualmente e un po' in sordina
non funziona benissimo: basta una crisi e le persone scoprono la realtà. E'
facile per chi fa opposizione trovare argomenti che rispondano istintivamente
alle domande eluse dai governi precedenti: qualche anno fa bastava dire che
serve meno stato, oggi il contrario. Stato "buono" ovviamente, in
opposizione a quello "cattivo" governato dagli altri. Ma anche in
questo caso è una risposta di breve periodo: il re è nudo, prima o poi qualcuno
trova il coraggio di dirlo.
E
infine, elemento più sottile ma non irrilevante, occorre riconoscere che il
lessico buonista, politicamente corretto, sempre educato e gentile ha
rotto i coglioni a molti. E che non è poi così grave se una persona in generale
corretta ed educata sbrocca ogni tanto, rivelando sentimenti e istinti
negativi. Non è credibile un mondo in cui tutti sono buoni, delicati e sempre
controllati, non aiuta neppure a evitare il rischio dell’imbarbarimento.
Senza
interrompere l'azione educativa e avendo sempre chiaro ciò che è giusto e ciò
che è sbagliato (in ciò il relativismo non aiuta), nella quotidianità occorre
trovare uno sfogo poco dannoso per quella parte di natura umana che non è
perfetta: il tifo, la comicità, l'ironia sono spazi da proteggere e anche il
politico più serio e impegnato deve trovare il modo di valorizzarne la
funzione. L'alternativa è una compressione d’istinti che poi riemergono con
violenza e oggi, specialmente sui social, sembrano incontenibili.
Guardare
al futuro
La
comunicazione legge inevitabilmente il presente e tende ad amplificarlo, il
meccanismo democratico elettorale trasforma l'onda in voto. L'effetto onda è
più marcato ed evidente rispetto a un passato ideologico, che è ben difficile
rimpiangere e in cui le onde e le mode culturali esistevano eccome, ma è un
effetto potenzialmente più volatile, meno persistente.
L'effetto-onda
è fondamentale per vincere le elezioni: solo una parte minoritaria degli
elettori, in ciascuno schieramento e con l'eccezione di alcuni piccoli partiti
fortemente identitari, vota con motivazioni approfondite e con vera consapevolezza,
anche dei propri interessi. Una maggioranza crescente orienta il voto verso il
profumo di vittoria. Come nel calcio le squadre più vincenti hanno più tifosi,
anche fuori dalle città d'origine, così anche nella politica. Non c'è da
scandalizzarsi, né si può pretendere che tutti i votanti approfondiscano
contenuti e logiche amministrative e politiche; peraltro si manifesta oggi l’ulteriore
rischio delle false competenze, alimentato dalla disponibilità d'informazioni,
verificate, false o anche solo parziali, alla portata di tutti.
In
periodi di passaggio e trasformazione l'onda vincente si alimenta di
un'aspettativa generica di cambiamento (in cui ciascuno vede solo gli aspetti
che ritiene positivi), prelude a nuove opportunità per chi si ritiene
compresso, limitato non da se stesso, ma da fattori esterni o da un qualche
nemico, identificato in una figura di leader dell’opposizione.
Ma
l’onda si gonfia anche solo per l'impalpabile piacere di sentirsi vincente,
contrapposto alla frustrazione della sconfitta. Non a caso sui social, teatro
ormai privilegiato di una continua disfida di parole e atteggiamenti, l’argomento
frequente che i sostenitori dei partiti al governo gettano in faccia agli
oppositori è: - State zitti, avete perso. -
La
politica opera nel presente, ma può scegliere di guardare poco o tanto al
futuro e di mettere argomenti nuovi o passati al centro dei suoi messaggi.
Quando emerge una forza di reazione occupa sempre molto bene i temi che
guardano al passato: illude del ritorno a inesistenti età dell'oro, attribuisce
colpe storiche, si fa vanto di saper eliminare le modernità che non piacciono.
Ma
d’altro canto il futuro non è una semplice ripresa della narrazione
progressista, dal tono dolciastro e buonista, non è un richiamo stereotipato ai
valori comunitari, non è l'allineamento sulle posizioni più estreme dei
"progressisti" sociali, non è il rifiuto sdegnato della lotta
politica all'arma bianca.
Chi
oggi fa politica e si sente distante dagli argomenti e dai modi dei sovranisti
non può rinunciare a una quotidiana lotta d'opposizione, quella in cui si
ribatte colpo su colpo, anche duramente, utilizzando tutti i mezzi leciti di
pressione a disposizione, superando rapidamente la fase dei sensi di colpa,
dell'incertezza, della speranza di risvegliarsi e che tutto sia finito. Non
finirà fino a quando gli elettori assaporeranno altrove il profumo di vittoria,
un aroma lungo e difficile da riprodurre.
La
linea di difesa deve essere supportata da un attacco dotato di idee, persone e strumenti,
nuovi e potenti. Occorre coltivare nuove leadership in grado di:
-
portare una
sfida reale e responsabile allo stato attuale dell'Unione, di segno opposto a
quello dei sovranisti. Occorre criticare le inerzie, le lentezze, il ruolo
eccessivo degli stati nazionali che hanno impedito di procedere più rapidamente
verso una vera Unione. Servono proposte e soluzioni istituzionali coraggiose
e unificanti, in grado di mobilitare in modo trasversale gruppi e categorie in
più paesi, guardando in particolare ai giovani, che non possono accettare passi
indietro nella loro libertà di spostamento, di formazione, di crescita
culturale rispetto a quello spazio europeo che hanno sempre vissuto come casa
propria;
-
utilizzare
l'arma identitaria dei sovranisti nelle regioni che cercano indipendenza dagli
stati nazionali: in Spagna, nel Regno Unito, ma anche in Francia, Germania e in
Italia. Il progetto di un'Unione federale basata su regioni, e non su
stati, può dare un futuro ai territori che oggi rivendicano un futuro
improbabile da satellite, ma anche ai tanti stati piccoli che oggi fanno parte
dell'Unione, in ruolo subalterno rispetto ai più grandi. E' un'identità ancora
più forte di quella nazionale, che in una vera Unione potrebbe essere
valorizzata, in un quadro di governance comune che consenta di competere a
livello globale. Anche in campo economico sarebbe semplice dimostrare che gli
squilibri maggiori convivono proprio all'interno degli stati più grandi, Italia
in particolare, smontando gran parte delle argomentazioni sovraniste;
-
sviluppare un
programma di riforme che riconosca in Europa l'evidenza di due macro
comunità ispirate l'una a principi cristiani e l'altra all'ateismo /
individualismo; consentire a entrambe di operare per quanto più possibile
secondo i propri principi, convivendo pacificamente anche con le altre
comunità, ispirate a fedi religiose diverse; evidenziare ciò che unisce, senza
negare ciò che radicalmente divide ed è perciò irriducibile a sintesi;
-
mettere al
centro di tutto il dibattito economico e sociale il lavoro, intorno al
quale costruire nuove soluzioni e modelli, costruiti su nuove forme di
contratto sociale in cui lo stato è regista e sempre meno primattore. Bilancio,
debito, moneta e ogni altra dimensione economico - finanziaria devono essere rielaborate
alla luce della necessità di sviluppo parallelo delle intelligenze umane e di
quelle artificiali, il cui incontro operativo avviene appunto nel lavoro.
Come
agire?
Pur
consapevoli dei punti di forza di lungo periodo, trascurare l’orizzonte
immediato sarebbe molto pericoloso. Più la strada è lunga, prima bisogna
partire.
- Non si può
rinunciare a un’opposizione quotidiana, senza remissione, senza incertezze,
speculare a quella che hanno fatto i sovranisti in questi anni, sia pure con
stile differente e in linea con altri principi. Occorre privare il sovranismo del
sostegno di molte energie qualificate, di quegli esperti verso i quali mostrano
distacco e anche disprezzo.
- Sviluppare
dibattiti e soluzioni su nuova Unione, futuro del lavoro, patto di comunità,
consente di accumulare vantaggio sui sovranisti, impegnati nel tentativo vano
di restaurare l'inesistente.
- Sarebbe
razionale tentare di costruire un’opposizione partitica unica, coesa e
determinata, con una forte leadership; purtroppo tutti questi risultati insieme
sono difficili da raggiungere, almeno nel breve termine. E’ quindi più efficace
puntare su 2 formazioni, una di “sinistra” e l’altra “liberale” (sperando che
non ne serva una terza per difendere le ragioni dei cattolici): alleate verso
il comune obiettivo e unite sui principi di fondo, divise in alcune soluzioni
sociali economiche, come peraltro accade nella società.
- Senza
trascurare un’ulteriore possibilità: una volta raggiunto e in qualche modo
consolidato il potere i sovranisti potrebbero, come spesso avviene nella
storia, abbandonare i temi e i toni più sanguigni, utili alla scalata, e assumere
quelli prudenti e visionari degli statisti al governo. Un po' alla volta i
centravanti di sfondamento vengono messi da parte e si cerca sponda nelle aree
più razionali della società, per avviare una nuova fase. Dietro alle posizioni
più forti c’è sempre una scelta razionale di conquista del potere: sono
convinto che nuove idee, specie se lessicalmente distinte dal passato dei loro
avversari politici, potrebbero destare interesse e consentire a queste forze
una conversione a U, oggi difficilmente ipotizzabile.
Anche
dopo i colpi di coda la politica dimentica in fretta e trova sempre i modi di
cavalcare il presente. Occorre però qualcuno che prepari i cavalli, nell'attesa
di utilizzarli. Ecco, questa è la fase che deve iniziare.
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